ABORTI

Il figlio che mi aspettavo mi rendesse madre l’ho abortito un pomeriggio di code agostane sulle litoranee e fetore di spazzatura che annunciava i cassonetti cittadini a cinquecento metri. Nella stanza dove stavo io batteva il sole e nel corridoio salmodiava inascoltata la litania di un televisore dimenticato acceso.
Un ostetrica sudaticcia e un medico dalla faccia infelice mi comunicarono con tatto la fine di ogni cosa e mi fecero gentilmente accomodare all’inferno. Ci soggiornai per un bel pezzo e ne uscii parecchi mesi dopo con una ferita non rimarginata alla ghiandola dell’ottimismo e un odio per il mese d’agosto che non mi potrà mai più lasciare.
Il figlio che mi doveva finanziare d’amore l’esistenza ha disinvestito improvvisamente i capitali dalla mia impresa una notte mentre stavo seduta sul cesso. Ero sola in casa e all’alba ci arrivai dondolandomi avanti e indietro con gli occhi sulla terza piastrella di fonte ai miei piedi e un torchio nella pancia a strizzarmi i visceri giro dopo giro.
Nell’acqua sotto di me caddero tutto il sangue e tutto l’amore che contenevo ma il buco non si chiuse quel mattino e per quanto in seguito m’amassero in molti, non fui più capace di trattenerne dentro e ne fui vuota in eterno.
Il figlio a cui avrei chiesto di farmi capace di sopravvivere al tedio, alla mia immagine riflessa e ai pomeriggi di domenica, se ne andò senza nemmeno lasciarmi tra le gambe la solita coda rossa di cometa, come avevano fatto gli altri. Lo vidi galleggiare immobile nello schermo dell’ecografia come un relitto che si posava sul mio fondo. Seppi in quell’istante di essere il tronco vuoto di un albero disabitato, un palazzo sgomberato e pericolante, una piscina nel giorno di chiusura. Nessuno mai mi avrebbe più impedito di restare in compagnia delle sciocchezze che abitano la testa delle persone che non hanno da occuparsi d’altri. Nessun ostacolo ci sarebbe stato tra me e i miei voleri e questo mi diede lo sgomento.
L’ultimo figlio, quello che m’aspettavo avrebbe avuto sete e fame di me, quello che m’attendevo mi tempestasse di domande, quello a cui avrei insegnato tutte le cose che non avevo mai saputo, arrivò fino alla mia soglia senza decidersi a varcarla.
Alle quattro e cinquantuno di un mattino ancora incerto se imbucare le finestre della sala parto, il suo cuore subacqueo si inabissò per sempre, inghiottito dal buio del mio ventre.
Forse stava per chiedermi se esiste una sola ragione al mondo per cui val la pena di faticare così tanto. Se era poi così una buona idea trasferirsi in un posto come questo e io gli avrei mentito, se me n’avesse lasciato solo il tempo.
Ogni possibile bugia avrei inventato di cui avrei potuto essere capace, mille e più menzogne. Avrei spergiurato spacciando me stessa, me madre, come un ottimo motivo per venire al mondo, gli avrei promesso che mai l’avrei lasciato solo ben sapendo che non era vero.
Tutto avrei fatto per ingannarlo e portarlo qui da me, tra queste braccia, e avere un naufrago con me su questo scoglio, un Venerdì su quest’isola deserta, un pezzo di questo niente che mi trovo dentro da scagliare a braccio teso nel futuro.
E invece anche lui non s’è fidato.
Si vede che ce lo devo avere scritto in faccia che sono io la prima che non si sa fidare. Di me, di niente, di tutto il circo delle famose meraviglie del creato.
Che attraverso lo spazio e passo le giornate come fossero melassa e affondo verso un destino che non ha sorprese.
E mi attacco sulle braccia e alle pareti le foto dei figli mai avuti.
E vicino ci metto tutte le donne, tutte le madri che non sono stata, e faccio sera così, a riempirmi gli occhi delle loro vite mai vissute.

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