Agnese e Orfeo (di Ivano Ferrari)

Orfeo è strafatto di stanchezza e sta riverso sul divano come un’otaria sfiancata dalla procella, con il cappotto ancora indosso e le scarpe ai piedi. Garantito che se qualcuno si prendesse la briga di chiederglielo giurerebbe senza esitare che non c’è posto per alcun desiderio nel suo cuore. Che lì dentro ormai c’è solo un luogo vuoto e freddo, piastrellato di bianco come i gabinetti dell’autogrill quando dentro ci sono gli addetti alle pulizie e non si può entrare e c’è tanto di cartello a terra con la scritta “attenzione a non scivolare”.
Agnese entra nel salotto e si siede sul divano. Orfeo di colpo sa di nuovo con certezza che per desiderare lei la forza la troverebbe anche se fosse moribondo.
Agnese accavalla le gambe (dio quelle gambe) e lo guarda come si guarda un documentario sugli scarabei stercorari.
“Ti hanno trovato su una panchina così e ti ha depositato su quel divano il 118?”
“Scusami. Ora mi cambio. E’ che sono distrutto. Ho lavorato 36 ore di fila a quel progetto”
“Non mi risulta che in acciaieria si facciano turni da 36 ore”
Sei bella, con quello sguardo d’odio. Hai la grazia di una specie terribile, come la mantide o la murena. 
“Hai mangiato qualcosa a pranzo?”
“Sono stata al ristorante con il mio nuovo amante. Lui può permettersi locali che tu con il tuo stipendio da pezzente puoi guardarli giusto dal marciapiede di fronte”.
Anche oggi non hai toccato cibo. Stai diventando fatta d’aria e di pensieri strani come i sogni di un ubriaco. Se tu fossi una cannibale potresti mangiare un po’ di me per non sfiorirmi davanti così.
“Tu, piuttosto, di mangiare mi sembra che non te ne scordi. Stai ingrassando da far schifo. Saranno le squisitezze che servono alla mensa dell’acciaieria.”.
Io non lavoro all’acciaieria. Mi ingozzo di tramezzini con la maionese e l’uovo sodo nel bar sotto lo studio. E da domani non mangerò più, diventerò come un tempo, come quando ci siamo conosciuti e tu non ti saziavi mai di me. Perché ho bisogno che tu mi desideri ancora, ne ho bisogno più del cibo e più dell’acqua.
“E se stasera cucinassi qualcosa io? Ti va? Anche se sono un po’ stanco una cenetta riesco a metterla su. Va bene amore?”
Amore.  Se c’è qualcosa che ha potere sui tuoi pensieri fa che stasera possa renderti diversa da ieri. Per una sera sola.
“Non mi chiamare amore, brutto stronzo. E vatti a fare una doccia che quando torni sento la tua puzza di sudore che sei ancora per le scale.”
Anche oggi non ti sei lavata. Ma non importa. Hai il fascino di una selvaggia, di un’indigena guerriera a cui mi arrenderei senza difendermi.
“La facciamo insieme, la doccia e poi ti siedi qui vicino a me e mangi qualcosa? Che ne dici?”
Rimani interdetta. Sembri cercare qualcosa sul soffitto, nel cielo turbinoso che ti tieni dentro. Hai la bocca socchiusa e i tuoi bei denti che si vedono appena, mortificati dal fumo e dall’incuria. Si vede ancora il disegno delle tue sopracciglia che ricrescono e segna quei due piccoli archi che percorrevo con le labbra ogni giorno. Hai il collo teso, come in ascolto, marezzato di nero, il tuo collo d’impala e i capelli sudati e bisunti che lo abbracciano a ciocche, come io non posso più fare. Dalla apertura della vestaglia occhieggia un seno che vorrei coprire perché non sei tu che me lo vuoi mostrare, con quelle grinze verticali di frutti dimenticati troppo a lungo in dispensa. In fondo al corridoio delle tue gambe che scostano il sipario della veste senza che tu te ne accorga, c’è una fenditura di peli come una porta scura che resterà per sempre chiusa. Sei bella che non trovo un come a cui paragonarti, vita mia che se ne va.
“Sei tornato presto oggi dall’acciaieria. Siediti che ti preparo qualcosa. Devi mangiare qualcosa che sei pelle e ossa”.
E’ d’un tratto allegra la voce di Agnese.
Io non lavoro in acciaieria, sono un architetto. Il tuo ex-marito lavorava in acciaieria. Non ricordi? Ma che te lo domando a fare. Stasera non ricordi. Magari domani, a tratti chissà. 
Fa così la demenza fronto-temporale, me lo ha spiegato il neurologo. Mi è rimasto impresso questo nome perché tu ora mi ricordi proprio un temporale, che viene inatteso e va via, come i tuoi ricordi.
“Ti faccio una bella bistecca e poi facciamo tanto amore, vuoi?” la voce di Agnese arriva squillante dalla cucina.
Mio dio, sembra che lo dica a me, sembra vero.
“Non lo so, stasera sono distrutto e forse devo stare sveglio e lavorare ancora”.
Sveglio come sempre. A guardarti mentre dormi che sembri ancora tu. Devo stare sveglio ad aspettare i tuoi ricordi. Che quando tornano da te non mi devono trovare addormentato. Sveglio che devo sempre essere pronto  a rivederti ancora, quando tornerai da me.

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