Alfio (di Arturo Riso)

Il rientro a casa dopo una giornata di noioso lavoro era da sempre considerato da Alfio il momento più bello e più atteso, non solo perché ritrovava la sua famiglia formata naturalmente da se stesso, da una dolce moglie casalinga e da una graziosa e affettuosa figlioletta, ma perché pregustava l’attesa di una succulenta cena che si preannunciava, come ogni sera, con odori intensi di ragù, di carne tritata, di spezie e di cipolla; sentiva già il profumo del vino nostrano di uva che egli stesso aveva raccolto e che grazie al frantoio del paese si era trasformato in quel succo rubino delicatamente profumato e dal sapore dei frutti di bosco, invidia di tutti i suoi amici.
Evitava di utilizzare l’ascensore per raggiungere il terzo piano della sua abitazione, ma saliva lentamente le scale di casa e a ogni scalinata si fermava, annusava e riprendeva a salire; solitamente tra il primo e il secondo piano percepiva gli odori provenienti dalla cucina di casa sua, allargava le narici e inspirava con forza e la familiarità di quella scena, che ormai accompagnava da anni la sua esistenza, lo rendevano felice e sazio ancor più della cena stessa.
Quel giorno, salendo come al solito le scale a due gradini per volta, giunto ormai al secondo piano, d’un tratto, senza quasi rendersene conto, rallentò il suo passo: i gradini che lo separavano dalla porta di casa non erano poi tanti, ma con sua grande sorpresa non percepiva il benché minimo profumo familiare. Si fermò, prese dalla tasca destra della giacca il fazzoletto, avvolse delicatamente quella sua protuberanza al di sopra della bocca che mai lo aveva tradito e soffiò con forza: ripeté quell’azione due, tre volte per essere sicuro del risultato e restò in angosciosa attesa.
Con incedere lento colmò la distanza che lo separava dalla famigliola e, impugnata la grande chiave della porta blindata, con ansia la infilò nella serratura e alla fine l’uscio si aprì.
Il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle avvertì gli altri della famiglia dell’arrivo del marito-papà e, come ogni sera, la moglie e la figlia si precipitarono verso di lui per salutarlo e baciarlo. Subito le due donne notarono l’aria strana e sospettosa che avvolgeva un incredulo Alfio il quale, oramai all’interno della sua abitazione, continuava a non percepire odori e di profumi neanche a parlarne.
“C’è uno sciopero in atto” – chiese Alfio, sorridendo suo malgrado alla moglie Lina – “Volete forse farmi morire di fame o avete deciso di cenare fuori stasera? – aggiunse con tono scherzosamente minaccioso. “No, Alfio” – rispose Lina – “Niente di tutto questo, ma abbiamo preparato per te una piccola sorpresa”.
La tavola era apparecchiata, il pane già affettato e la bottiglia del vino al suo posto; uno strano sibilo proveniente da una pentola a pressione convinse Alfio che non avrebbe atteso molto per
conoscere i misteri di quella cena. Lina si affrettò a chiudere il gas, scoperchiò una prima pentola e tirò fuori un’enorme patata le cui dimensioni potevano tranquillamente paragonarsi a un pallone da rugby; da una seconda pentola venne fuori un cavolfiore gigante.
“Mettiti a sedere, la cena è pronta” – disse Lina -. “Si tratta di uno scherzo?” – reclamò Alfio e aggiunse: “avete forse fatto la spesa al mercato dei Ciclopi?”.
“Sta tranquillo che ti spiego tutto” – rispose Lina – “ma promettimi che non devi fare il prevenuto”. “Si tratta di cibi modificati, geneticamente modificati; ormai sono in molti a comprarli, si risparmia, si cena come tutte le sere e si riesce a colmare il fabbisogno giornaliero di proteine vitamine calcio calorie”.
L’enorme patata e il cavolo gigante furono tagliati a pezzi molto piccoli e leggermente conditi, le porzioni furono fatte e i tre si misero a cenare.
Non un solo sorriso da parte di Alfio durante quella (per lui) misera cena, pochissime le parole scambiate; il sapore di quei due “cosi” non era poi tanto male, ma gli odori dove erano finiti? Una patatona senza nessun odore di patata, un cavolo gigante e nessun profumo di cavolfiore.
Alla fine della cena Alfio si levò da tavola senza parlare, si ritirò nel suo studio e si sdraiò pensieroso sul divano. Restò a lungo con gli occhi sbarrati a guardare il soffitto, mentre le due donne si erano congedate da lui con la buona notte già da un pezzo. Non riusciva a dormire,
nonostante fosse notte fonda, a tratti le sue palpebre si chiudevano, ma strani incubi immediatamente lo assalivano: sognava di essere un neonato tra il becco di una cicogna che lo
posava in un campo di giganteschi cavoli e sua madre non riusciva a trovarlo mentre egli piangeva e si disperava; appariva poi un ciclope che, seduto su un’enorme pietra, sbucciava decine di grosse patate e queste formavano una morbida montagna che franava e finiva per ricoprirlo di pasta gialla.
Solo all’alba Alfio finalmente si addormentò e un bellissimo sogno lo avvolse: saliva le scale di un grattacielo di cinquanta piani e ad ogni piano tre porte con le rispettive abitazioni. Si avvicinava agli usci ed annusava e i profumi lo assalivano: odore di ragù, di spezzatino, di polpette, di salse, spezie e cipolle, profumi di olio e di vino e di pane appena sfornato e più saliva più gli odori diventavano intensi e sofisticati. E quando alle sette del mattino Lina si affrettò a svegliarlo perché un’altra giornata di noioso lavoro lo attendeva, vide un sorriso stampato sul viso del marito e immaginò che avesse dormito serenamente e sognato.
“Evidentemente ieri sera ha mangiato bene” – pensò Lina – “Vorrà dire che stasera si replica!”

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