CANTO DEL CORPO DELL’AMATA (che si muta)

I tuoi piedi non hanno la freschezza imberbe di tacchinelle tese. Non rispondono all’estetica ovvia del nuovo, dell’immacolato, dell’intonso. Mostrano invece la loro trama di tendini e vene, solcati sul dorso e rilevati come plastici, atlanti geografici, schinieri che mostrano le scalfitture dei colpi parati e di sotto l’intrico delle tracce di tutte le strade che hai percorso a piedi.
E sono belli, belli questi tuoi piedi.
Perché non sono piedi egoisti.
Viziati dal riposo o dal tempo trascorso a decongestionarsi sollevati, ma piedi fermi, a tenere il punto, ben appoggiati sui talloni, gravati dal peso delle borse e dei figli oppure mobili come bacchette di tamburo che percuotono i selciati, piccole lepri inquiete che scendono le scale con il ritmo di un passo inconfondibile al mio orecchio. E’ con quei piedi belli che hai calcato le vie che portavano ad oggi, non sempre scegliendole, interpretando il ruolo della donna che questo tempo e il mio sguardo hanno voluto attribuirti. Questo fa i tuoi piedi per me ancora più cari, più preziosi ai miei occhi.
Che non è facile camminare lungo i sentieri del ruolo che ci riserva il mondo.
Le tue cosce non sembrano più due giovani foche che giocano a scontrarsi e ad inseguirsi come quando le hai appoggiate alle mie la prima volta, elastiche e tirate che i baci ci rimbalzavano e le piccole gocce d’acqua ci correvano come fossero di vetro. Ora cambiano forma quando si appoggiano alle sedie e qualche piccolo fiore viola le orna come giarrettiere. Ma sono ancora lisce e lucenti e conducono alla tua vulva sapientemente, come sentieri noti di erba e di profumi, che sanno di casa e ricordi che abitano quei luoghi solamente. E mi sanno consolare. A poggiarci l’orecchio, il viso, il palmo della mano, qualunque sia il pensiero che non so domare.
Le tue mani assomigliano ogni giorno di meno alle tue mani. Ogni giorno diverse come sei diversa tu ogni giorno. Mi ricordano con il loro tremore impercettibile la fragilità delle cose che sorreggono e la sottigliezza del filo che ci tiene in vita. Così raso è il volo, così lievi quando toccano, che resta il dubbio che il contatto ci sia davvero stato. Eppure le cose si fanno diverse dopo che le hanno sfiorate quelle mani, non so dirti in che modo. Io posso solo dirti qual’è il mistero: che nulla può essermi prezioso né appartenermi se prima non l’hai benedetto tu con quelle dita.
Le mammelle ti erano appena sbocciate in petto quando ho potuto tenerle per la prima volta in palmo. Ora ci hanno fatto scorribanda cinque bocche e dieci mani, dormito cinque teste e dieci orecchie, nuotato cinque nasi e dieci palpebre beate. Eppure restano lo stesso allegre quelle tue mammelle ridanciane ed è irresistibile la voglia di succhiarle a labbra piene, sempre che si riesca a trovarle libere, e di intrattenersi con loro come i formidabili balocchi che sanno d’essere e di toccarle di continuo come potenti talismani.
Sono grato al tuo collo sottile che oggi s’adorna di piccole pieghe se non altro perché sorregge il tuo bel capo.
Spesso lo guardo pulsare nel tuo sonno infrangibile e lasciar scorrere il sangue ai luoghi dove t’aggiri sola e vivi altre vite di cui non resterà memoria. Seguo il tuo mento, le tue labbra schiuse che hanno perso un goccio di vermiglio, le tue guance solcate dai sorrisi e dai pianti della vita, il tuo naso un po’ più adunco, la tua fronte che si aggrotta dietro qualche pensiero e sento che vorrei prenderti in braccio e tenere distante tutto da te, la pioggia e la salsedine. Dal tuo corpo caro. Che non sia mai scalfito da questa burla maledetta della vita né rovinato né corrotto né mai e poi mai guastato.

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