Una poetica bohémien verrebbe subito da definire quella di Cateno Tempio, perennemente sospesa fra volontà (e – mi verrebbe da dire – possibilità) di potenza, e senso di disadattamento ed inadeguatezza, dettato probabilmente dal contesto sociale e storico, molto comune ad una generazione falcidiata o “rimossa” dalla precarietà.
Eppure nei versi di Cateno, traspare un’intensità e una costante ricerca di musicalità e ritmica poetica – per quanto “claudicante” e balbettante – e soprattutto sembrerebbe, un amore spassionato per la poesia stessa nella sua accezione più vitalistica del termine. Spesso inconfessato eppure energico e a suo modo nitido; come tutte le passioni sincere.
Emergono ballate come sincopate, ritmate di assonanze che si potrebbero – volendo – musicare secondo le trame della canzone d’autore. Ritorna spesso un post-moderno odi et amo verso l’ars poetica – dove sanno intingersi anche venature liriche – che rimanda alla ricerca di strade sconosciute dove potersi e sapersi perdere nell’abbandono.
Edoardo Olmi
≈≈≈≈
Avessi L’ironia
Avessi l’ironia, quella baldracca
che fa passare tutto,
sgangherata,
casalinga infida da polvere sotto i tappeti,
la danzerei
quest’immondizia, come un bohémien,
con due fili di rabbia barbona,
tre tasti di fisarmonica,
quattro monete nel barattolo di ruggine
ed un coltello in tasca,
per le mele.
Ma c’è sempre qualcosa che manca,
una lingua di miele,
una donna, una sbornia,
io calembour,
saltimbanco fallito,
che m’accontento d’un poetare sdrucito,
altro non ho,
né fronzoli né orpelli,
solo qualche sbiadita
rima distante e stanca.
Altro non ho.
Non ho più nulla da darvi,
mi spiace; né malinconie
né rari bagliori di giorni,
sempre più radi, notturni,
bevuti al luccichio
d’un nulla ammantato di stelle
non conoscendo alcun tipo di dio.
Avessi l’ironia, quella baldracca,
per ridere sottile o a crepapelle,
si scuoterebbe il fango, almeno,
avrei un sorriso, un guizzo
io, impenetrabile,
smaliziato guitto,
darei un sussulto, un brivido
una scossa miseranda
a questa fioca terra; avessi,
ma non ho
più nulla da darvi, mi spiace.
Avessi l’ironia per schiaffeggiare
i vostri sguardi fessi,
racimolare un’elemosina
d’umanità, per svenderla,
travestito da mago, con frac
e guanti come un pianista stecchito
sulle soglie del mondo,
gracchiando uno sberleffo,
donando un’aria pregevolea questo inviso ceffo,
esultando,
vestendo un’ebbrezza patetica,
accomiatando il cosmo
con un cereo sorriso prosastico,
le mani in tasca zeppe di farfalle,
addentando polvere, affamato
di nubi e di castronerie,
purgato dalle dicerie, sformato, liso,
nullatenente ignudo su una brace
di convenzioni, norme, libertà
ch’è sempre libertà di un altro
non ho
non ho più nulla da darvi (avessi l’ironia),
né istrioneria né malincuore
né la triste amarezza di chi tace;
ho quattro gocce di fetore,
un sentiero battuto, un finto vagabondare
su una strada che non so.
Altro non ho. Mi spiace.
≈≈≈≈
Casa Santa
Zio, non vedrai mai più Erice in alto
dal tuo giardino, nella casa
costruita a fatica, tra il monte
e le saline e il porto.
Gracile il corpo, rotto
dagli anni, carico delle vite
dei figli, insipidito dalla malattia.
Nascosti gli occhi
azzurri, penetranti
come gli sguardi larghi
delle donne di Trapani. Una vita
tra Tunisia ed i luoghi
che erano per me soltanto festa:
il mare, l’avventura, il vino
ambrato della cantina sociale.
Custonaci, Bonagia, Valderice,
nomi di paesi, nomi
d’estate.
Il campeggio, la chiesa, un amore
di gioventù; la geografia
tutta interiore di un’ascesa
rituale, di anno in anno,
per una saga familiare: il belvedere
di Castellammare; come un auspicio simbolico
lungo la via di un paradiso artificiale
Purgatorio; poi Castelluzzo, Macari
e San Vito, finalmente,
con bancarelle, musica, le corse
sorvegliate dall’austero Monaco
di pietra,
lo Zingaro, l’antica
tonnara, il cous cous, la sabbia
pallida.
Sei morto il giorno dopo di Natale.
È la realtà che stride, fredda,
per i miei sogni estivi e i rami
stecchiti, come le tue membra,
scossi da un vento indifferente,
gelido.
Un cane, il cimitero, il sole
che svanisce
dietro il mare; la zia vorrebbe
toglierti la morte dalla faccia
di pietra; le corone di fiori,
mio cugino
ti bacia con amore la fronte immobile
di cera.
≈≈≈≈
Malinconia barbona
Malinconia barbona,
cosa chiedi,
che mai pretendi ancora?
Languida, vecchia matrona,
siamo qua:
tu sempre troppo uguale,
vestita a festa,
agghindata, truccata,
flaccida e sfatta,
mia vecchia signora;
io che t’elessi a dimora
lacera e affascinante,
cadente tugurio di fango,
io testamatta,
crocicchio di sbornie e pensieri,
scavezzacollo
con poesie e canzoni
tra i tristi sconforti dell’animo,
e gli occhi verdi o castani,
occhi profondi e sinceri,
dai nitidi sguardi, limpidi,
dai baci menzogneri.
Ma tutto questo ieri,
ma tutto questo ieri…
Malinconia barbona,
e cosa dirci ancora?
Che siamo decadenti,
l’uno per l’altro fatti opachi specchi,
noiosamente antichi, o forse
siamo soltanto vecchi.
Che non m’invaghirò mai più
di musica, libri,
ragazze.
Che abbiamo tirato il freno
alle corse sfrenate e pazze
in cerca di avventure,
persone, versi, sbronze,
sazi del brodo insipido
che ha nome felicità.
Malinconia barbona,
siamo qua.
Fin troppe volte ubriachi
per esserlo ormai sul serio,
stanchi di droghe, ipocriti
seguaci del falso e del vero,
a baciare le donne degli altri,
a piangerne, a riderne,
a smettered’amare,
di scrivere e bere,
ma solo per un po’,
ma solo per un po’…
Malinconia…
Ma chi sarai o sarò?
Noi sempre troppo uguali,
a scherzare imbecilli col fuoco,
biechi, inquietanti,
seri soltanto nel gioco,
godendo a marcire nel torto,
ostinati, immorali,
vivi, più vivi del vivo,
morti, più morti del morto,
passando inosservati,
muti ghignando nell’ombra
tra consuetudini in fiamme,
brandelli di religioni,
barlumi di libertà,
e non saremo
niente che non sia stato,
niente che non sarà,
preda di nuove illusioni,
imperterriti, sconci,
malinconia, barboni
assetati,
agognando la prima
irripetibile sbronza
d’alcol, di vita,
io, sterile vagabondo,
malinconia, tu,
a rimpiangere
laceranti passioni
di gioventù,
le donne, le musiche,
tutto quello ch’è stato,
tenendoci stretto per mano
ciò che forse eravamo,
che non saremo mai più.
≈≈≈≈
Pantaloni non miei
Pantaloni non miei, maglione
macchiato e un temporale
s’appresta, sporca i vetri,
metafora di niente,
nemmeno di questa
faccia triste
per gioco o ruolo,
per assuefazione.
Ci vorrebbe una giacca, una pipa;
ci vorresti tu, seduta
accanto a impedirmi di scrivere.
L’angoscia che straripa
non ti contiene. Il calice
dei nostri corpi è rotto,
le vene sono striature
per cui si mescono
le nostre essenze,
pure.
Virtuosi della noia, randagi
in semicupio, vorrei descriverci,
lividi d’insonnia
per ciò che ci fa male:
l’abbiamo detto,
il mondo.
(L’abbiamo detto.
Laccato d’umanità, un fissante
tenue. Certo – non c’inganna –,
sotto la breve
facciata di compassione
vibra l’antico incenso
di una maldestra pieve.
E ora, e ora?
L’incenso, pure a Pasqua, maleodora.)
(Non voglio più scrivere poesie
disperse per gli andazzi giornalieri
e il suono
sparso per gli anfratti
di case antiche come palafitte…)
(che scrivere?, perdio, perché e come?
La glossolalia. Balbuzie. Depressione.
La ripetizione, perdio, ripetizione!
Ô Deleuze, ô Deleuze,
deluge des mes larmes,
orage de malheure,
je n’ai que l’erreur!)
Non voglio più scrivere perché
tra noi due
sono io il peggiore,
con versi
che ridacchiano nascosti,
da cui sono bandite due parole:
la prima non la pronuncio neanche più.
L’altra sei tu.
(Ma la festa, la festa…
Giullare, poverello,
morto di fame, in cerca di frizioni,
sfregamenti, divieni un misero
cristo paesano
tra feste, tradizioni,
cortei e santi patroni,
con questa pagliuzzetta di poesia!
Vuoi compiacere al prete,
al sagrestano,
al ‘che si dice?’, al ‘come andiamo?’!
Andiamo, andiamo!
Diventa frocio, ammalati
di tumore,
bevi soltanto il più aspro
liquore, giocati il fegato
a rimpiattino!
Risvegliati un mattino
cianotico di cirrosi
apatica, antipatica!)
Non sai dove sarò, non sai,
lo so. Né tantomeno
lo so, smarrito, in balìa
di versi capricciosi,
posticci, cancherosi. S’odo
una rima è un cane
che abbaia un saluto
lontano,
un latrato,
per farmi accorgere che
ancora una volta
mi sono perduto.
E cerco d’essere lirico,
per te, di scriverti
filastrocche,
facendo rime di rose,
di albicocche, di margherite,
crisantemi,
violacciocche, di scriverti
lettere come i bambini,
per chiederti se resterai
per sempre,
resterai
per sempre,
resterai
fin quando avrò corroso questa
fisarmonica storpia
che ha mille buchi, la tastiera rotta,
che ha effigie di testa e forma di mente,
(resterai, rosa e albicocca,
resterai?)
e suona malinconica nel niente.
≈≈≈≈
Prodigo figlio
In questi luoghi che non so se amare
voglio lasciarci due penne,
tre vite malspese e fiumi
d’inchiostro simpatico.
Poi me ne andrò a rifarmi il pelo,
quattro vezzi da filibustiere,
pose da bellimbusto
e scaltre mani traffichine per il mondo.
Poi me ne andrò,
sbiadita copia di un poeta vagabondo,
per strade rattrappite che non so.
Chiuderò bene la porta di casa,
da bravo,
spegnerò luci e sprangherò finestre.
Poi me ne andrò.
Le stanze dei miei ricordi hanno chiavi di ruggine.
Se le apri, qualche volta, trovi
impronte di pulviscolo,
nebulose da cassetto,
malinconie fasulle e buchi
neri che il tempo dilata,
come labirinti
dalle uscite che non so.
Se avevo la rima a farmi da porco,
a scovare tartufi di senso
nascosti sotto polvere di mondo,
vorrò trovare ancora
fangosi recinti da porcaro
per rotolarmi in melma di viveri
come un prodigo figlio
che non ritorna più,
con un sorriso guardando le perle
notturne dell’universo avaro.
Poi me ne andrò,
perché voglio inventare
nei vicoli galassie scintillanti,
avvolgendo l’asfalto come un mantello.
Cantando ai pleniluni
nenie illanguidite che non so,
con un cespuglio in testa,
le scarpe color canarino,
la giubba papavero al vento,
traverserò il sentiero oscuro e chiuso
del cosmo luccicante e impersonale
cercando un modo che non so
per volgere, rotare, ribaltare
il meccanismo vuoto,
assurdo e sempre uguale
dell’ingranaggio mondo:
ci sbatterò le corna e il muso
per farlo risuonare.
Poi me ne andrò,
sbiadita copia di un poeta vagabondo,
per strade rattrappite che non so.
≈≈≈≈
Cateno Tempio:
«Tumefazioni di malinconie, liquore,
due sprazzi di angosce turchine
come la muffa,
squattrinato, immorale,
distante dalla baruffa del mondo,
gli occhi cadenti, un randagio latrare,
sono un topos sbilenco,
un funereo e sardonico
vestito da carnevale, sdrucito,
col sorriso truccato di bianco e di nero.»
sito su cui leggere altro : www.catenotempio.eu