Cattivi Maestri (di Ivano Ferrari)

Ricordo quando ti sei lasciata baciare. L’attimo esatto in cui sono stato certo che stesse succedendo davvero. Ancora qualche istante ho lasciato durasse, per fugare ogni dubbio, e poi avessi potuto t’avrei fatta scomparire e insieme a te tutti, in quella sala, per poter stare da solo a tenermi nello stomaco quel calore di gioia perfetta. Mi ha confortato per mesi, più forte e più grato quando ti ero distante. Lo riconoscerei all’istante, se lo incontrassi di nuovo. Lo ricordo così che saprei disegnarlo.

Ricordo una sera d’inverno un posto in montagna. Mi sono allontanato dal tavolo di quel ristorante non programmato dove era nata a sorpresa una serata bellissima e io sentivo le vostre voci, amici miei che non ho più, e tra le vostre la tua, il tuo riso che è casa e conforto e ordine del mondo. C’era un vino che mi scorreva al centro del petto e incendiava le orecchie e il mio fiato che nella notte fredda sembrava il vapore di un treno. Ho appoggiato il palmo della mano a un muro di pietre e ho guardato a lungo le stelle nel cielo nero gelato. Per un attimo sono stato vivo in due vite, voi tutti lì dentro e io fuori solo, sotto il firmamento.

E poi ricordo quando ho visto un gufo enorme, nel bosco. Salivo l’erta tra gli alberi con furia di esploratore alla ricerca di luoghi mai calpestati finché di colpo non ha voluto apparirmi. Inaspettato, impassibile come un ritratto a fissarmi severo, creatura invisibile a chiunque nel giorno volgare, ma viva, per me solo esistente, premio alla mia sete di nuovo e a quei vent’anni passati da poco. Ha aperto due ali immense ed è scomparso tra i rami con rumore d’animale lasciandomi pieno di un emozione che non avrei mai potuto comunicare ad alcuno.

E so com’è il respiro dei miei figli che mi dormono sulla pelle e so come ci si sente ad emanare calore e serenità e protezione e riparo. E so il loro odore come lo sentissi adesso.

Ricordo a quattordici anni un pomeriggio con la vespa su una strada sterrata nel sole tra i campi che mi sentivo così bello e perfetto da stare male all’idea che nessuno potesse vedermi.

E ricordo di aver visto un astronave nel cielo, una notte d’estate, con le luci colorate intermittenti, vicina da poterla toccare e di aver chiamato tutti gridando come un pazzo ma di non essere riuscito a mostrarla a nessuno. E ricordo illuminazioni, sintonie col creato, folgori di verità, vita traboccante da non poterla tener dentro e doverla trasformare in lamento. Una volta su uno scoglio di granito da solo nel sole. Posso richiamare a me tutto questo quando voglio e molto altro ancora senza nemmeno chiudere gli occhi. E posso interrogare questi ricordi per farmi dire ogni giorno chi sono. Perché è questa la prima cosa che si perde stando qui.

Vivevo una vita sfrontata. Animata dal coraggio facile di chi non ha mai sentito la pelle bruciare di ingiuste percosse. Mi prendevo il lusso di vivere con coerenza, di coltivare idee audaci, di frequentare persone poco raccomandabili, di parlare ad alta voce e di inimicarmi i potenti, se solo ne avevo voglia. Senza che me ne accorgessi il tempo si consumava e poco alla volta si avvicinava il momento in cui non sarebbe più servito a nulla invertire la rotta di quella mia esistenza senza prudenza. Tutti andavano imparando molto bene chi ero e al momento giusto non lo avrebbero dimenticato.

Non ci si accorge quasi mai del momento in cui il nostro destino diventa certo, segnato. Ancora a lungo viviamo come se fossero possibili molti esiti anche quando da tempo non è più così. Solo in seguito, e neanche sempre, realizziamo di quanto la chiusura dei giochi abbia preceduto il nostro comprendere che i giochi erano chiusi.

Quando il potere si tolse la maschera io ero già senza scampo.

I primi ad abbandonarmi furono gli amici. Si allontanarono da me come il volo di uccelli a volte precede la frana. Essere lasciato solo mi fece soffrire. La mia vanità non tollerava l’assenza di un pubblico e le mie gesta, che si riducevano quasi tutte a scritti o parole, non avevano senso nella solitudine. Vissi come trasparente. Assaporai la sensazione dell’invisibilità nei luoghi che mi avevano visto fino ad allora, prima bambino e poi uomo. Fu allora che mi misi in attesa di ciò che, ormai lo sapevo, era solo questione di tempo.

Cominciarono con la questione della sicurezza. Per settimane i media non parlarono d’altro che della violenza tra i giovani. A giudicare da quello che mostravano sembrava che il paese fosse diventato un’arena in cui scorrazzavano bande di ragazzi assetati di sangue. Le manifestazioni furono vietate quasi subito perché il sacrosanto diritto a manifestare le proprie idee non deve essere la scusa per esercitare violenza. All’unisono i giornali presero a pubblicare migliaia di attestati di stima alle forze dell’ordine che facevano quel che potevano in condizioni difficili e ogni tanto erano costrette a spaccare qualche testa ma solo per difesa e per rispondere a immotivati attacchi. In attesa di isolare i violenti e i facinorosi e ripristinare la normalità, indagini e speciali televisivi si interrogarono sul perché di tanto disagio. Certo non poteva essere sufficiente la disoccupazione, la mancanza di futuro, l’istruzione per pochi, la dipendenza materiale dai genitori protratta fino a tarda età. C’era dell’altro. C’erano di mezzo sordidi personaggi che utilizzavano il disagio giovanile per i propri scopi politici. Cattivi maestri.

La prima norma sull’istigazione alla violenza fu introdotta sotto forma di emendamento alla legge finanziaria all’ultimo momento, un attimo prima della votazione. Molti di quelli che mi avevano evitato sperando di salvarsi vennero arrestati prima di me, nelle settimane seguenti.

A circa un mese dalla promulgazione della legge il preside mi comunicò che un commissario ministeriale avrebbe assistito alle lezioni di un campione di docenti ed io figuravo nella lista. Non rispose alle mie richieste di chiarimento e liquidò la cosa come una normale procedura del programma di controllo della qualità avviato dal ministero già dall’anno precedente. Mentre mi salutava sbrigativo mi sembrò che i suoi occhi mi rivolgessero una supplica muta, lui che mille volte si era seduto alla mia tavola, l’amico a cui avevo dedicato parole d’affetto sulla prima pagina della prima copia di ogni mio libro.

Scelsi la rivoluzione francese e lo feci apposta. Tenni una lezione lunga, colta, infiammata. Quando descrissi i fatti del 17 luglio 1791 con la folla che piano si raduna e cresce al Campo di Marte e poi l’ordine di La Fayette, la Guardia Nazionale che spara sulla folla disarmata, le donne e i bambini che cadono sotto il fuoco dei loro fratelli che avrebbero dovuto proteggerli, gli studenti erano completamente soggiogati. Nessuno s’accorse dell’ispettore che abbandonava la classe.

I carabinieri bussarono alla mia porta alle cinque e un quarto del mattino, come è loro costume. Io ero già sveglio e vestito e scrivevo nel silenzio, com’è mio costume. Non ricordo se feci in tempo a salvare quanto stavo scrivendo. Mi sembra fosse qualcosa di bello, di importante, ma non riesco a ricordare di più.

Da allora ti ho vista invecchiare un po’di più ad ogni colloquio mensile.

I ragazzi sono rimasti nel mio ricordo bambini sprofondati nel sonno del mattino. Ai cattivi maestri è proibito avere contatti con le giovani e fragili menti.

Mi è stato tolto tutto quello che aveva senso per me. Non ho potuto più leggere, se non qualche giornale sportivo vecchio di mesi, né scrivere una sola parola. Togliendomi tutto hanno pensato che io mi perdessi. Ma io so chi sono.

So quando sono nato, una mattina lungo il marciapiede di scuola con la cartella in spalle, mio padre che si faceva lontano e per la prima volta ho sentito che io ero io e nessun altro. E ricordo tante altre cose e ricordo il ricordo. E le cose che avrei voluto dire e quelle che ho detto d’aver detto. E su tutto la gioia che avrei potuto provare se le avessi dette davvero.

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