Cicuta: la poesia anfotera di Enzo Lomanno

Nell’Inno Omerico a Ermes si narra che il dio appena nato esca dalla grotta dove è stato partorito dalla madre Maya e si imbatta in una tartaruga. Spinto da quella crudeltà immotivata che spesso muove i giochi dei bimbi, il dio infante uccide l’animale, ne svuota il guscio, vi pratica dei fori, vi tende delle corde e con questo macabro strumento prende a cantare. Canta la sua stirpe, gli amori clandestini di sua madre con Zeus il sommo, la nascita di tutte le cose e la tuche, il fato, che tutto muove.
Come scaturendo da quell’unione di oscuro e di sublime, dal collidere e fondersi della leggerezza del gioco con la morte, per la prima volta sotto il cielo risuona la poesia.
Ecco che ancora una volta il mito si fa emblema e ci mostra ciò che ognuno percepisce non appena si avvicina al canto o lo incontra per caso sulla propria strada: la sua natura doppia. Gioco serio, leggerezza greve, luce oscura, immergersi e riemergere tra conscio e inconscio.
Sono proprio questa coesistenza e questa contraddizione le prime caratteristiche che vengono alla mente leggendo i versi di Enzo Lomanno. Fin dalla prima lettura di questa sua seconda silloge, “Cicuta”, pubblicata nel 2015 per Terra d’Ulivi, l’autore, classe 1976, ci mostra infatti la natura duale del suo poetare.
Duale nella scelta dei temi, universali e particolari, dei luoghi, tutte le città ed una sola, e della visuale infine, dura e romantica, spietata e sognatrice al tempo stesso. E duale nella forma, a tratti spinta verso l’alto da un anelito di classicismo e a tratti popolare, prosastica.

Cicuta sulle strade rotte
Dai marciapiedi frementi
alle colonne grasse dei Fori

E poi le Driadi, roventi nei boschi
roventi nei laghi e nei fiumi.

E poi il sereno, immutabile specchio
di sole guercio da una nuvola bianca
Ed il profumo del mercato vicino
ad una chiesa…
(Cicuta)

Si è guidati attraverso questi scenari da un linguaggio poetico maturo, pregno, che sale e scende seguendo i voli e le cadute dell’occhio, ricalcando l’ ambivalenza arcaica, il fango e le stelle, alzandosi a tratti, rarefatto, addirittura lirico:

Al di là
il vuoto contorno
ci resta d’eterno
Non l’ala
né il faraglione
Forse
la spuma
e il suo bricciare
Senza più casa
e nessuna sponda
da dimenticare
(Spuma)

e abbassandosi subito dopo per farsi materiale, terragno

La porta di fatto – rimane aperta
a cigolare “Cristo
sia fatta
la tua
fottuta volontà”
… (Sinners).

È così che addentrarsi nei versi di Lomanno diviene sin da subito un viaggio nel duplice animo di una generazione ferita, tutta divisa tra il rimpianto di una realtà negata, appena sfiorata e viva solo nelle letture o nei racconti dei maggiori, e l’accettazione stoica di uno scenario presente che nulla, forse, potrà più scaldare.

Un giorno qualcuno mi disse
che avevo il grugno liquido di un bambino
E che se anche il gioco fosse finito
avrei respirato lo stesso
scivolando…

E non so
il fatto è che sorrido sempre meno
… (Oggigiorno il sole)

E’ una generazione post ideologica, certamente, a cui non è facile darla a bere ma anche non bruciata dalla disillusione come quella degli ex rivoluzionari pentiti, biliosi nelle loro pantofole, resi accidiosi dalla collezione ammuffita delle loro epocali occasioni perdute. Una generazione ancora capace di indignarsi

Ora stanno tutti lì
Preoccupati dal suono greve
degli Scud
[Eppure l’offerta tira al ribasso
due proiettili al prezzo di uno]
(Father’s gun)

e capace di credere in un riscatto possibile, foss’anche distante dai grandi sogni collettivi. del secolo scorso. Come la poesia, ad esempio, e la condivisione tramite la parola.
“Bibbia d’asfalto è un luogo in cui convergere, un luogo libero e scevro dalle falsità.” recita la presentazione del collettivo poetico online fondato da Lomanno qualche anno fa e che oggi conta migliaia di visite e di contributi. Ecco quindi delinearsi spiragli nella realtà dura, metallica, che fa da fondale a questi versi. La condivisione, la parola, l’incontro e il rifiuto dell’ipocrisia, divengono viatici possibili e aprono la porta ad un odore di speranza. La speranza in punta di labbra, declinata quasi con pudore nella splendida chiusa di “Fuor d’acqua”, una delle più belle poesie della silloge:

ma saprò respirare
prima o poi
tra il giorno
e quell’onda
di casa
e deserto.

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