Davanti al riformatorio ci infilzavamo
Le braccia a turno con settecento siringhe
A ritmo delle nostre facce sporche,
c’era quello col naso aquilino e i denti da cavallo
che mi metteva sempre i gomiti tra costole e fianchi
e il macellaio in pensione con le sue partite
che ci salutava e noi gli chiedevamo quanto potevamo costare
e lui ci diceva Salite, vi faccio vedere io!
Poi ci pesavamo prendendoci dalle dita dei piedi
e sparavamo numeri a caso con quello alto
il figlio dello svedese, che sapeva matematiche di ogni universo
e parlava veloce e poi l’anguria della domenica, con le suore
e le staccionate, e le mosche sopra i capelli della ragazzina incinta
incinta per mille volte con le gambe sempre aperte su immaginarie
amache invernali e pupazzi di neve che costruivo col mio
schermo mentale fatto di piatti rotti
e poi c’erano le strade con l’asfalto che ha toccato i miei denti
per dieci notti una volta
e tutto il giorno di fronte al riformatorio
a veder passare la morte o le ragazze con sopracciglia a T che si indignavano
guardando le nostre mani rotte, le nostre ginocchia-arancia, le nostre foto
di epilessia che non potevamo permetterci
c’era il pazzo della Panda grigia una volta, che ci mostrava le
nuvole riflesse nei suoi denti d’oro e sapevamo che stava per piovere
o che i baffi delle suore stavano per piangerci addosso
così un giorno me ne stavo con un jeans più corto da una gamba
e il pazzo della Panda grigia passava senza farmi vedere i denti
e io gli facevo segno di sorridere, per vedere se quella notte sarei potuta fuggire
ma c’era il caos, e poi il fumo che trapelava dalla terra, e il terremoto
e un gatto nero
ché noi le superstizioni non potevamo permettercele
così aspettavamo di essere liberi e di entrare a farci stuprare
la faccia a farci dire che tempo poteva esserci a richiuderci sudati
nella Panda grigia, e attraversare tutta la strada col gatto lì seduto
scommettendo su quando sarebbe passato
su quanto ridicola sarebbe stata l’ultima nostra sfortuna
sulla strada nera.