colorismo negli scrittori toscani dell’800 e 900 (di Eugen Galasso)

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http://centro-relazioni-umane.antipsichiatria-bologna.net/2012/10/14/eretico-empio-sovversivo-eugen-galasso/

 

Premessa:                   Il colore implica la forma e viceversa. A parte i bozzetti , in genere in bianco e nero, il colore c’è sempre, senza dire, cosa peraltro ovvia (ma spesso non considerata-trascurata-dimenticata) che anche il bianco e il nero sono tot à fait colori, come lo è il grigio, loro combinazione, più che”sintesi”. Difficile che le poesie, i racconti, i romanzi siano privi di colore: anche nei racconti più tetri del grande Edgar Allan Poe i colori, appunto, ci sono e anche le loro sfumature, dal bianco al nero passando per grigio, marrone, lo “scuro sporco”etc. C’è il colore dello”spleen” (noia, sorta di atarassia esistenziale rispetto al mondo), che è il colore del fumo delle ciminiere, per “materializzarlo”. Certo, poi, ci sono generi letterari ma soprattutto autori che privilegiano il colore. Ciò nella letteratura toscana tra i due secoli(1800-1900)è assolutamente evidente.        Se il più grande degli scrittori toscani esaminati, il senese Federigo Tozzi (1883-1920), ha certamente colori accesi e gradazioni di colore nelle sue opere, sospese tra passionalità e profondità psicologica (si è voluto accostarlo a Dostoevsky, ma il suo più grande studioso moderno, Luigi Baldacci, lo colloca soprattutto tra gli scrittori che hanno approfondito le nuove (allora) tematiche psicologiche e psicoanalitiche, come anche sulla scia degli scrittori francesi): ciò emerge in romanzi come “Con gli occhi chiusi”(Milano, 1918), in novelle come”Bestie” (MIlano, 1917) e ancora in un romanzo come “Il podere” (Milano, 1921).  Il tema dello spleen e del”male di vivere”in Tozzi è certo fondamentale, implicando dunque anche le relative implicazioni cromatiche, di cui si è detto.                     Carlo Collodi (1823-1890, il vero nome anagrafico era Lorenzini), fiorentino , mai troppo ricordato, anche al di là del celebre “Pinocchio” (in realtà “Le avventure di Pinocchio. Storia d’un burattino”, Firenze,  1883) ma anche di narrazioni altre, che poi convergono in “Pinocchio”; come quelle su “GIannettino” e “MInuzzolo”, oltre che traduttore geniale delle classiche fiabe francesi, soprattutto di Perrault e La Fontaine, lega completamente il colore alla forma, con effetti che hanno caratteristiche varie, diremmo quasi anche scultoree oltre che pittoriche e legate al disegno, dato lo sviluppo del personaggio “Pinocchio” nella sua metamorfosi ma anche degli altri citati personaggi e di altri ancora.                 Renato Fucini (1843-1921), di Massa Marittina, poi per anni “dislocato” a Firenze, anche famoso come Neri Tanfucio, con cui firmò scritti vari (anche pornografici), rimane l’autore di “Le veglie di Neri” (Fi, 1882) e “All’aria aperta” (Fi, 1897) dove il paesaggio toscano corrisponde, per analogia, a sentimenti, passioni, pensieri dei personaggi: un paesaggio sempre vivo, qualunque sia il tempo atmosferico (e dunque anche la stagione) in cui i personaggi si trovano a vivere.  Ciò vale naturalmente anche in Ferdinando Paolieri, Fiorentino,  collega di Federigo Tozzi per la rivista”La Torre”, della”destra cattolica”, demestriana, che in tutti i suoi scritti, dalle “Novelle Toscane”(Torino, 1914) al “romanzo” (la definizione è messa in discussione dallo stesso autore) “Natio borgo selvaggio” (Firenze, 1922) fa partecipare una natura inferocita alle passioni violente dei suoi personaggi, con effetti paragonabili a quelli dei Macchiaoli, come rileva intelligentemente Pier Francesco Listri. Tutto diverso il percorso di un altro protagonista dell’esperienza della”Torre”, Domenico Giuliotti (1877-1956) di San Casciano Val di Pesa: se in “Penne, pennelli, scalpelli” (Firenze, 1942) l’ispirazione era-come già evidente fin dal titolo-non solo fortemente cromatica ma proprio anche pittorica (anche Paolieri aveva iniziato, senza successo, a dipingere e studiare pittura), nella sua opera più celebre”L’ora di Barabba” (Firenze, 1946) il tratto cromatico era andato perso a favore della fede o meglio dell’approfondimento politico-religioso e delle conseguenti polemiche. Idem per il suo quasi coetaneo, il “superfiorentino” (amato-odiato), autore dalle tante opere e dai molteplici interessi(fece conoscere in Italia diversi e importanti movimenti culturali) Giovanni Papini (1881-1956), in cui gli interessi culturali tendono quasi a schiacciare la “visione”, pur se lo scrittore e intellettuale la pittura la conosceva e frequentava assiduamente. Chi invece realizza una sintesi totale tra pittura e scrittura, quasi un William Blake toscano è Lorenzo Viani (1882-1936), iper-viareggino, i cui quadri di matrice espressionistica si legano”totalmente”all’opera letteraria, dalla biografia di Ceccardo Ceccardi, “Ceccardo” (Milano, 1922), a”Gli ubriachi” (Milano, 1923), a”Giovanni senza paura” (Firenze, 1924), all’opera più nota ed emblematica, “I Vàgeri” (Milano, 1926). Opere tutte eccelse, dedicate appunto ai “vàgeri”, ossia i vagabondi, gli ubriachi, i”matti”, gli”asociali”, della sua Versilia ma anche incontrati durante i soggiorni parigini: nel solco dell’espressionismo, soprattutto tedesco, i derelitti, gli esclusi, gli”altri”, con una vena di umana pietà che si lega, però, soprattutto alla rivolta. I colori prevalenti(e vale quanto detto sopra: in pittura come nella scrittura)sono quelli spenti degli”sradicati”, ma con improvvise accensioni cromatiche.

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