Deborah Žerovnik – Mirko Servetti: “D’inverno. Danzando.”

Carne, pelle nel mare chiuso. Si muovono le rugiade nei sonni dormiti da vecchi hombres duri come i monti di Carrara. acqua terra aria fuoco provocano sottili brividi ai filosofi sufficienti del proprio es mentre lontano, forse milioni d’anni-luce si stendono, a nastro, luccicanti autostrade panamerican

uno sguardo, di marmo tegumento, il resto lasciato fuori non è silenzio è il divenire di danze, è movimento

Sciogli i tuoi occhi se i soggetti lagnano sorrisi sommessi e distanti; potevano nascere nuove memorie all’ombra della madonna tutta nera, astante al sole notturno. Sarebbe stato gradito poter sempre udire: io, ancora io, drappeggerò il riscatto della memoria, con le sue pieghe di fuoco.

Sarà stupro nudo, nudo come l’amore su bianchi fogli a tingersi di nero, folli innocenze seducenti di illeciti neri amanti, come è nero l’amore che bacia capelli all’arsenico mentre il sangue caldo e frenetico si muove con rabbia perché la passione è dissolutezza senza interruzione, è maledizione, movimento ribelle e irose narici a un mondo morto e la sua noia assonnata e sbadigliante di anima vuota e la sua eco, meretrice di risate. Si concederà rubando bocca al tempo teso in collera, scuro come il groviglio nel tempio del caos divino e rigore di candela ad ingoiare pensieri di soffocante vergogna. Sarà carnale, come carnale è l’amore, anima nello scheletro a smembrare la carne mutilando rivoluzione e il perverso nei suoi atti, nera e gocciolante, come i corpi e lo scrigno senza latte dal capezzolo, solo bocca e faringe tra i sussurri di lingua, iridi dalla fame di piena e brama di fauci. Diverranno buia nuda essenza, come è buio il vivere di corvi bruciando ali da inchiodare alle tavole di un letto teso, dimora del privilegio e saliva di dèi, dannazioni tra le dita a intrecciare pelle da sporcare e i suoi solchi, sporco come la meraviglia brutale senza veli del seme a scaldare le labbra, scuro come le ferite, nero come le unghie a graffiare la pergamena del boia, come l’amore a baciare la sua lebbra e il disgusto sublime al preludio della speranza.

Sicché lei notò la regressione della pupilla ed esclamò il mondo

ed il corpo le bestemmiò alla sua benedizione…

Il crimine: dolce, buia ostetricia, gratuita come la morte. La domenica è Lei, scoperta col vento sulla testa e il giunco pennellato sui glutei… cuscini autunnali – fontana d’ombre parolifere, che sei -. Frustate di distanze ingorde, baci inscenati sul capestro di occhi eccitati per la simulazione del bronzeo delirio (ara ramata della coscia sintattica – perfino le stelle tremano un po’ per la paura, senza dubbio per la vertigine al momentaneo chiarore dei fuochi. La storia continua, il radiatore va fondendosi, ma si andrà avanti; le brume tentano approcci ai bordi degli acquitrini… i grigi della tua veste sono caldi; “si vivrà… si vedrà”. Avresti mai dipinto un sorriso di quasar? (Bacerò ugualmente la tua fronte). Anche gli occhi delle sante piangono latte; anche le labbra dei romei…

cantando salmi all’universo crudele dalla terra umida e paura, frenesia di schiavi affamati e sguardi assiri…

Ci svegliammo con i progetti vampireschi già definiti: Dopo la corsa, una lettura della miniera di quegli occhi, vista in qualche modo come ritiro dall’universo e dalle sue concezioni. La dissociazione dai corpi, e il relativo silenzio delle danze, ottennero il vorticare di quella sua gola, valle d’arcaiche ambrosie… Libertà: il suo autentico prezzo è il corpo tra il fogliame – fresco, il suo corpo nella notte rapita agli incendi; più chiaro, quel corpo immemore delle mordenti fiamme

e l’ardore a dissolvere tortura quanto la fiamma e la paura a far tremare le ossa, capriccio di stomaco e degli arti, mentendo a leggi e alla santità dei re; le mani scosse a beffare l’argilla del pensiero, è passione a far muovere il sole che chiama e infiamma.

Sì, molti treni dovranno transitare proprio di qui. Man mano che l’oblio viene a ghermirci, tutto si chiarifica: smarrimento delle lettere, palpebre cucite su qualsiasi visione che non sia la piena osservanza del rumore, barzellette le più atroci sullo stile, il caldo abbraccio in negentropico equilibrio. Sì. – “Di’, guarda come ti somiglia…” – Marionetta fangosa, ho deciso: ti narrerò tutto; ascolta, se sei pronto a rituffarti nella nebbia, e… poi, di che ancora? Specchiere, angoli, boccoli, gatti d’Angora, pianoforti semoventi, pupille girigie, spalle tremanti, ventri sussultanti, spalliere di letti a prospettiva parabolica, impoverimento delle mani, collo di fenicottero (vagamente rosé), atmosfere decadenti, whisky cadente, tartine, pazza fica fatta a campana, urla graziose, doccia di petali freddi, morte rapida, da gran signora fin du siècle. (Rinunciare, per sempre, a quegli occhi impossibili)

Murato in pulmo il colpo di testa, quel sentore che scalda e al ciglio arroventa, mentre sulla fronte il rogo a liquefare pulsazioni del gioco di gola e linguate marchiate a fuoco, poi alla mercé della libertà meccanica e chiavistello a posizionare il taglio e l’inevitabile fame a gocciare per l’atteso, probabile, vago ma reale, insaziabile.

Madrepadre, binomio/antinomio di un pianeta che iniziò ad esporre messianicità in versi. E furono capitoli degenerati, poi, in tenzoni tra mulinivento e allampanati hidalgos. Del resto, nelle aurore precristiane, furono letti di madreperla a sorridere sugli stilemi adottati – donne cretesi, con ovali senzatempo, lo sapevano e scopavano amanti dalle maschere dorate – e madri spartane succhiarono vino dalle labbra dei propri nati.

-Il precipuo sezionando di labbra danzanti tra i sussurri che il bisbiglio rimanda, fonte di fiumi, e vulcanico fuoco – empireo d’artificio e, il mondo alle bocche ad accalcare alari comete urlando voci estranee alla luce d’una luna così pervinca e densa da fluttuare su di essa.

Avanti, sulle statue bronzee, ossuti ionici coercizzano due indivisibili: uno stretto nel pugno, grembo e certezza del giovane Anassimandro; altro, incosciente della propria indivisibilità, apre corolle di panteismo in vista di cuori palpitanti sull’Agorà dopo che le parole furono superate da un dolce brindisi di cicuta

al vivere propositi di gioia, quali al primo divise, contro, a tutto il resto mai incontrato in volti a non gettar di calma solitudini ai bordi – all’interno inviti alle fonti del rimpiattino nel furtivo intorno, restando un piccolo angolino, non ancora colmo delle vite per la vita

e leggo sui quotidiani su, in paradiso, che l’erba è stata toccata da mani di diossina – il mio cuore è diossina – il tuo sorriso è diossina delle 5 – perché quest’Europa così America ride nervosa tremando sul golfo Persico – 100 ottani senza leggende argonautiche – senza impegni di scrittura – neppure l’impegno di questi versi mediobassi che stonacchiano un nouveau élan vitale

Vedere trasforma ma la parola resta sporca in quello spazio ideale che incarna l’onore da mostrare, la cosa semplice è volgare e la bellezza di un colpo d’occhio, quando la dici, è da negare.

mentre il sangue caldo e frenetico si muove con rabbia perché la passione è dissolutezza senza interruzione

Il collo sentirà gli occhi sciogliere il bronzo della carne, e avrà capelli neri che cadranno sulla fronte pesanti, scura la pelle come gli occhi pungenti , labbra sottili a intonare melodie dure come marmo, scure, selvagge come è scuro un amore zingaro dalle mani lievi e calde come piume a frustare l’orrore e i buoi ad arare la schiavitù più nera, nera come la più bella tra le belle senza nome, scura nuda serpe strisciante, scura come lo sguardo ad osservare il piede temere e tremare al passare di gamba e trascinata andatura di fuga.

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