(da Il labirinto)
Chi ricorda quell’ora della notte?
I soldati del mio tormento, inerti,
sono fili di vento e di neve…
febbre della tua memoria cieca,
della tua spada pazza.
Sono queste ombre volanti,
questo brivido segreto nel corpo.
Sono questo rovesciamento
nella terra del paradiso,
sono quelli che infilano una vela
nel cuore dell’inferno.
E persino l’ultima riga di quel paese
di cui aspetto il passaggio
(come le vedove nella guerra del malvagio)
per entrare nel diario dell’estate…
…O Hilla! Oh Eufrate di Nassiria…
quando sei assetato
ti porgo da bere
l’acqua con le due mani.
E balzano i piccioni dell’erba
come conigli domestici.
Nelle foreste, perseguitate dai trattori
dai grappoli dei fiori.
Questo è il campo del cuore
che le nostre mani colpiscono,
colpiscono le nostre mani la tristezza della cenere;
che si levi la mano dalla terra
verso la pace della nostra sciagura!
Chi ha costruito una casetta di mirtillo
e di palma del sud?
Ricordi il sale
che ancora resta nel tuo bicchiere?
Chi salverà allora il paese?
Chi salverà l’acqua?
Chi verserà il miele sulla tavola
o nei bicchieri da tè
al pomeriggio?
E’ dunque questa la delusione della lezione dei viventi?
E si levi virtuosamente
il richiamo della bontà
dopo la tua morte,
e faccia,
per non dimenticare,
gioielli del tuo sogno.
Era questa la strada del riccio.
Lo stendardo della fame del lamento?
Ogni volta tu canti per la gloria:
torna dal passato prossimo
lo spirito
del massacro delle oche selvatiche.
I tuoi alberi erano orecchini
con pietre di Gerusalemme:
i nostri campi
sparano le loro mine
poiché camminiamo
superando l’oblio.
E perché incliniamo alle passioni
dei martiri
e bruciamo,
bruciamo senza rimpianto
le chiacchiere dei libri.
Avanziamo verso il ciclo del signore
con il rantolo dell’impaurito, gridiamo all’incursione
presso le rovine della mezzaluna.
E non c’è sonno
nel vestito del matrimonio:
non c’è sonno,
chiassose sono le pallottole della morte.
I fari del martire e le sue stelle
sono le stelle della famiglia.
I nostri vestiti sono intessuti
della stoffa delle farfalle.
Al mattino cantiamo con il nostro pianto
prima degli uccelli dei vicini:
è come se volessimo innalzare
la nostra statura
prima che rotoli il mattino
o prima che bruci il pane nel fuoco.
Quello era l’effetto
che luce
le ali dell’acqua.
I nostri villaggi
custodiscono una ricchezza nascosta.
Così, adesso
noi in quell’oro ritorniamo
verso le nostre lettere in ritardo,
verso i nostri campi
o verso le nostre anime
che dalla loro distruzione tornano
con le loro rovine.
E chi conosce tra noi l’ora della notte?
Sono di ghiaccio le nostre cinture,
si estende la nostra terra
per ingravidarsi di fuoco.
Prima dell’abbandono della carne…
prima di arrostire la frusta sulla pelle…
Oh..? L’ora della donna incinta,
il suo delirio è sopra l’albero,
e i suoi panni,
eredità degli avi,
forse camminano con la perdita
delle voglie e i balzi del cuore.
Forse i figli della strada
sono i costruttori della casa.
E forse nei momenti di sconforto
cercheremo terra che fa nascere sabbia,
cercheremo il segno di Alhaj Hannon Atiya
nella kufia dei lavoratori a giornata.
Cercheremo Sciamsa figlia di Saleh
nel crollo del diluvio,
il fiore del té,
la possibilità che cessi la pioggia…
forse noi non fummo,
un giorno,
discendenti delle spade
e dei Sumeri:
la sabbia ci sembra lenta
quando è tempo di riflusso per il fiume.
Un palpito di violenza.
Difficoltà nello strappare il quieto bagliore…
E poi cosa, di un’aquila che raccoglie
le tribù dell’insulto?
E cosa della sua ostilità severa?
Poi cosa resterà
fra la densità della città
e la rottura della diga?