La casa delle fate di Cinzia Marulli, ed. La Vita Felice, 2017, Milano.

“L’ecologia della parola” di Cinzia Marulli: 

nota di lettura a cura di Stefania Di Lino 

 

“Una madre e una figlia! Che sconcertante e terribile combinazione di sentimenti di confusione, di rovina. Tutto è possibile quando viene fatto in nome della tenerezza e dell’amore: le ferite della madre le soffre la figlia, le delusioni della madre ricadono tutte sulla figlia, l’infelicità della madre si trasmette alla figlia, è come se il cordone ombelicale non si fosse mai spezzato.

Mamma, è così? La sconfitta della figlia è il trionfo della madre? Mamma, il mio dolore è un tuo piacere segreto?”

(dialogo tratto dal film Sinfonia d’Autunno, (Höstsonaten), 1978, di Igmar Bergam.)

 

[…]

io non ti ho sempre amata madre-bambina. Spesso sei

stata il mio fardello.

Un peso doloroso sulle mie spalle deboli. Ma per te sono

divenuta forte.

Lacerandomi.

[…]

(versi tratti da La casa delle fate, di Cinzia Marulli)

 

La scrittura spesso, scaturisce da pressioni profonde e da forze che si contrappongono fino a confliggere.

Da magma indistinto, per trasformarsi alchemicamente e diventare tale, la scrittura deve essere necessariamente tenuta sotto controllo,  non solo nello sforzo di trovare le parole che più aderiscano al pensiero, ma per una traslazione/traduzione di piano (dall’Es all’Io), evitando la scissione psicotica ”di questa personalità ben strana che sono i poeti” (S.Freud), e mantenendo in modo acrobatico un equilibrio  di pressione tra il dentro e il fuori.

E poi cernere, setacciare, distinguere, dare nome. E ancora resistere, in super visione, al magma per non lasciarsi travolgere dalla giostra centrifuga che spalanca indistintamente verso l’esterno, e il vortice centripeto che invece tende ad inghiottire alla stregua di un maelstrom.

Chi scrive, dunque, si sottopone e si espone ad uno scuotimento di forze non indifferente, ma attraverso la scrittura, con il suo procedere, c’è anche un liberare e un liberarsi al contempo, una purificazione, non solo mediante una certa visura che, come dicevo presuppone controllo e distacco, ma in alcuni casi può avere la cifra e la forza del perdono, inteso più in senso psicoanalitico che strettamente religioso, inteso cioè, come atto profondo e soggettivo incondizionato a prescindere dall’offesa ricevuta, e non per sentirsi “buoni” in cambio di ricompensa, ma perché solo con questo maturo atto interiore indipendente, si può operare un taglio, una cesura, fors’anche una sorta di castrazione, che rende possibile però una separazione vera dall’Altra/o. Questo tipo di perdono riguarda in special modo quello dei figli verso i genitori, e nel caso specifico trattato, di una figlia verso la propria madre ormai anziana e dipendente. E tanto più il rapporto si inoltra in una fitta palude d’amore simbiotico, tanto più la lacerazione diviene dolorosa ma dirimente.

Per questo scrivere comporta qualcosa non solo di catartico, ma anche di eroico, tanto più se si tratta di poesia, e ancor di più se l’argomento trattato presenta un’oggettiva scabrosità, delle asperità dure vetrose che graffiano nel vissuto personale del poeta, fino al sanguinamento.

Paradigmatica si fa dunque in tal senso, ma non solo per questo, la scrittura di Cinzia Marulli, nel suo libro La casa delle fate,- vincitore tra l’altro nel 2016, della I edizione del Premio Casa Alda Merini, silloge inedita,- testo in cui affronta il sofferto quanto amorevole rapporto con la madre in quel periodo della vita che si fa coagulo denso e doloroso di quanto, della vita stessa, è ormai passato, e quindi immutabile, e il futuro non è altro che il presente fatto di attimi da donare come amore incondizionato, trasformandosi da figlia a madre della propria madre, prima che la morte sparecchi la tavola dai commensali.

La nostra poetessa scrive in apertura di silloge:

Si ferma il tempo

nel percorso che m’avvicina

in questo luogo risiedi

qui – dove la vita passa nell’attesa.

 

Il candore della tua pelle m’accarezza

quella pelle tornata bambina

ora che invochi me

come fossi io tua madre

 

Non tragga quindi in inganno il titolo, La casa delle fate, trattandosi, per quanto ben organizzato, di quello che una volta veniva definito “ospizio per vecchi”, oppure, più eufemisticamente, “struttura a lunga degenza”, che accoglie signore anziane, le “fate” appunto, ormai prossime al grande Mistero della vita, più che alla magia presente nelle fiabe per bambini, di cui però, nel titolo, si conserva la metafora scelta pare, dalla mamma della stessa autrice.

Cinzia nella silloge scrive:

 

<<Dove mi hai portato, figlia?>>, chiede la madre, e senza attendere risposta con consapevolezza disarmante, afferma:

<< Va bene, figlia, io rimarrò qui a morire. Tu copriti prima di uscire ché prendi freddo.>>

 

[…]

e la Signora Morte neanche si nasconde

mentre le guarda

per decidere chi portare via per prima.

 

“E’ questo il problema del dolore: esige di essere sentito.” dice il protagonista di un romanzo di successo tra i giovani di qualche anno fa, Colpa delle Stelle di J.Green.

E la nostra poeta scrive:

[…]

la casa delle fate non era in programma

e il rimorso c’è e io lo voglio.

*

E questo tuono

che esplode nel petto e piega le labbra

[…]

*

 […]

in quel luogo

falsamente verde

le ossa sono le uniche cose

ad avere un senso.

 

E il linguaggio con cui Cinzia affronta il tema del dolore non è certo quello della rimozione, bensì dell’accettazione e dell’ ascolto. Lontanissima da qualsiasi tono curiale o da virtuosismi retorici autoreferenziali che potrebbero edulcorare, banalizzando il testo, l’autrice, al contrario,  rifugge la tentazione di un pietismo a buon mercato o da una facile auto commiserazione, – sentimento tra l’altro molto distante dalla nostra poetessa, sia per indole che per formazione, almeno per quel che mi è dato sapere,-  e a cui il tema trattato pur si presterebbe. Ma il testo, che potremmo definire alla stregua di una elaborazione luttuosa, intesa come atto di separazione, è pervasa da una umana pietas, rivolta non solo alla madre, ma anche a se stessa, presentando  quell’indiscusso valore aggregante tra privato e collettivo di cui la poesia alta è portatrice. L’esperienza narrata da Cinzia è uno specchio in cui ognuno può riflettersi anche solo come dato sociologicamente interpretabile, di una società patriarcale, cioè, ormai estinta, in cui l’entità familiare si presenta da tempo come mononucleare/ monoreddito, formata sempre più spesso da donne sole con uno o più figli, a cui spetta anche il faticoso carico della cura dei genitori anziani. Un compito difficilissimo se non si hanno altri familiari su cui poter contare per la cura e l’accudimento degli anziani. Da qui la costrizione alla scelta della lunga degenza nella “Casa delle fate”. 

Né sfugge al senso  acuto della nostra poeta lo stridore crudele, distopico, rappresentato nella Casa delle fate, ultima stazione prima della morte, dalla ridicola finzione dell’allegrezza pacchiana di una televisione sempre accesa:

[…]

Poi quella maledetta televisione che ciarla

come fossero tutte sceme le fate

come non avessero passato la vita a salire a salire le scale. 

 

Nel caso della Marulli potremmo parlare di una “ecologia “della parola, nel senso che il linguaggio usato rimane scarno, senza mai superare i limiti dell’asperità, i termini sono limpidi, cristallini, privi di nascondimenti e compiacimenti, e le parole hanno esattamente il significato che manifestano. Una poesia “onesta”, direbbe Umberto Saba, e semplice, aggiungerei, ben sapendo quanto lavoro di pensiero e di lima ci sia nella cosiddetta “semplicità”: parole dunque senza “infingimenti”, arrivando persino a smentire Pessoa, perché nel testo della Marulli il dolore è dolore,  la morte tale rimane, e non è neppure francescanamente trattata da “sorella”. ma definita con distacco “Signora”. E l’urina rimane urina: intride le lenzuola e allaga diverse pagine, nella descrizione del materno decadimento corporeo, al punto che quasi se ne avverte l’umido e il pungente afrore.

Una poesia corpo. Una poesia corpo in lingua madre.

Dunque parole ruvide, rocciose, prive di orpelli, dirette, ma venate talvolta da intelligente ironia con alcune assonanze idiomatiche dialettali, esattamente come ci si rivolge alla propria mamma, in lingua “madre” appunto.  E queste  note rendono il testo ancor più intenso da un punto di vista emotivo, in qualche modo ancor più intimo:

 Ti sogno sempre

 e continui a rompermi anche di notte /

 ma non hai l’esclusiva /

[…]

 

E se caratteristica precipua dell’opera d’arte, non è quella di “rappresentare”, o almeno non lo è più da quasi due secoli circa, – dall’invenzione della macchina fotografica da un lato a quella della psicoanalisi dall’altro -, ma di “presentare”, o meglio svelare una visione nuova della realtà che riunisca al contempo il soggettivo e l’oggettivo, una narrazione che contempli l’individuale e il collettivo – e pensiamo che enorme valenza socio-politica racchiudono questi due termini insieme: individuale e collettivo – in quest’opera di Cinzia Marulli, in questo passaggio di testimone tutto al femminile, ognuna di noi, da figlia e da madre, ritrova una parte importante di sé.

Dice ancora la nostra Poeta:

[..]

ma saperti altrove libera e luminosa

è una serenità che va oltre la gioia

 

il tesoro che mi hai lasciato

cresce nel tempo

e ha l’immagine del tuo sorriso.

 

Eppure, leggendo questo non facile libro di Cinzia – non facile per il dolore e il tema affrontati -, mi  vengono in mente dei meravigliosi versi di  Izet Sarajilic nel suo Libro Degli Addii:

 

«La cosa più importante quando cominciammo a scrivere
non era tanto creare versi
quanto nei versi riabilitare l’amore.

(…)

Stefania Di Lino

 

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2 Comments

Grazie Anita, ma più delle mie parole, la poesia, e l’arte in generale, sono state oggetto di approfondite analisi da parte di studiosi, per tentare di arrivare a ca(r)pire il segreto della genesi della creatività. Senza mai riuscirci, fortunatamente a svelare l’arcano. Un caro saluto.

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