Libero (di Ivano Ferrari)

Non mi lasciare.
Non mi lasciare. Non mi lasciare.
Vedere la mia mano destra a terra spiccata dal corpo non mutilerebbe la mia carne come fai tu quando volgi il passo lontano da me.
Non mi lasciare. Non tendere l’orecchio ad altri suoni. Non guardare altrove. Guarda solo me.
Lascia che io ti racconti come ci siamo amati quando mi amavi. Come e quando il mio disordine è diventato ordine, come il mio frigo si è riempito di ogni ben di dio, ogni graffio è sparito dalla carrozzeria della mia auto, la polvere si è sollevata dai miei scaffali, i rammendi sono scomparsi dalle mie calze, i vetri fumosi delle mie finestre sono diventati cristallo trasparente. Come un giorno le tue gambe perfette ti hanno guidata nel mio vuoto recando ogni cosa dove non c’era nulla.
Tu già pensi che non t’importi del racconto di noi. Nemmeno ti sembra di essere tu, una di quei due noi. Ma io posso farti vedere qualcosa che non hai mai visto. La storia che credi di conoscere con occhi diversi da tuoi soliti occhi. Posso mostrarti lo spettacolo del tuo viso, della tua persona, della tua voce come quando va in scena solo per me.
Vieni a vedere. Avvicinati.
Guarda il nostro incontro, il nostro primo bacio. Guarda con i miei occhi, bacia con le mie labbra. Entra nella mia prigione. Siedi sul letto dove abito, sentilo vuoto come io lo sento da quando un giorno è stato pieno di te. Qui trascorro il mio tempo e ti aspetto, prigioniero che non cerca la fuga, detenuto che spende il suo giorno nell’ozio attendendo che il catenaccio scorra per vedere finalmente il proprio aguzzino.
Entra, accomodati.
L’arredamento è semplice. Le pareti sono fatte del tuo corpo, libri con milioni di momenti che hai dimenticato agli scaffali, alla radio gli accenti di una tua voce che non sentirai mai. Un piccolo schermo mostra le immagini che posso chiamare a me quando chiudo gli occhi. Il pomeriggio che abbiamo passato seduti su quei gradini mentre si faceva buio senza che nemmeno ce ne accorgessimo. Quel punto dove le sopracciglia ti si fanno rade, verso la tempia, e la felicità che mi nasce dentro al pensiero di sfiorarle con la bocca. Una pioggia greve di montagna sulla nostra piccola tenda azzurra. La luce di quel giorno spento filtrata dalla stoffa gialla e la cascata dei tuoi capelli neri in cui mi immergo e mi perdo. Le gocce che precipitano dal cielo grigio sul telo teso che ci divide dal mondo e sono come un telegrafo che sa annunciare solo buone nuove. Un piatto caldo, la fine della guerra, l’arrivo di un amico, la festa di averti. Sentile ora quelle gocce e il loro picchiettio irregolare e fitto che allarga il tempo, codice di impulsi che fa di un minuto un’era, scatti dopo scatti di meccanismo animato d’automa, piccole ruote dentate di molti orologi a questa parete, metronomo, bastone di vecchio sul selciato a misurare le giornate che sanno solo trascinarsi fino al tuo arrivo.
Cambiare le marce dell’auto, zuccherare il caffè, telefonare, ravvivarsi i capelli, fermarsi a pisciare mentre tu ci sei sempre, qui dentro, da qualche parte dietro agli occhi e più spesso qui, vicino allo stomaco. Guardare tutto attraverso il velo della tua presenza anche quando sei lontana. Camminare sempre sentendoti in tasca, rassicurante come il portafoglio, come un portafortuna, come un lasciapassare. Sentire stronzate, subire discorsi idioti, ubbidire ad ordini senza che tutto questo possa farmi male davvero dal momento che di nulla mi importa davvero.
Guarda i miei giorni in fila come macchine in coda nel più assurdo dei lunedì mattina della più puzzolente delle città. Non ti intristire a guardare la teoria delle mie povere ore. Io sono in attesa di te e sono immortale.
Senti quant’è grande la forza di averti. Inebriati.
A volte solo per un attimo caviglie sottili intraviste per strada, capelli neri d’estranea mimano la tua figura, pallide fotocopie che mi fanno girare di scatto senza volerlo. Prova la gioia che mi dà il confronto con l’immagine che porto dentro, l’abisso che le separa dall’inarrivabile, la consapevolezza che l’unico originale è quello che è già stato mio. Lascia che si allontanino ignare, credendo magari d’avere stupito, poveri surrogati il cui solo compito è ravvivare il ritratto di te e far traboccare la gioia che accompagnerà tutta la mia giornata.
Ora aspetta che il cuore smetta di martellarmi le tempie e poi fatti dire una cosa.
Se uscirai dalla mia tasca e non ti avrò più con me potrò smettere di portare ovunque nel mondo il tuo peso. E morirò.
Se mi lasci infrangerai le pareti di questa mia cella e io sarò libero. E morirò.
Ricordo l’ultima notte che ho attraversato con te (è un anno ormai, senti il calore della tua gamba nuda contro la mia che mi guida fino al mattino). Quella notte ho sognato che tu non eri mai esistita. Uscivo dalla mia vita come si esce da una casa. Fuori c’era una luce intensa e nient’altro. Un deserto di luce che faceva male alla testa. Mi sono voltato e la porta e la casa non c’erano più e io ero solo nella luce. Mi sono svegliato piangendo e tu mi dormivi accanto e non ti eri accorta di nulla. Ho sollevato le lenzuola per guardarti. Ho provato a consolarmi inalando come un balsamo il tuo odore caldo. La curva della tua schiena, i tuoi glutei hanno placato il mio smarrimento ma non hanno cancellato quel vuoto accecante.
Ora voglio dirti questo. Non mi far tornare lì fuori.
Hai sentito la paura, hai sentito fermarsi la vita?
Ora finalmente puoi capire.
Non rendermi libero.
Resta padrona di me.
Non mi lasciare. Non mi lasciare.
Non mi lasciare.

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