Lungo Tevere (di Dafne Rossi e il Ninja – parte 2)

Ponzano Romano

Poco prima di sera arrivarono nel comune di Ponzano Romano e andarono dritti a un bed&breakfast le cui indicazioni avevano trovato lungo la strada e che avevano chiamato per telefono appena arrivati all’ingresso del paese per assicurarsi che vi fossero camere libere. Ponzano era un tipico paesino medievale, con alte mura e vicoli stretti e con i pavimenti in pietra. Imboccarono una minuscola stradina, scesero dalle bici e le poggiarono al muro, poi si sedettero aspettando che la proprietaria del B&B venisse ad aprire loro la stanza: passò un bambino che non doveva avere più di sei anni, il quale si fermò e li guardò come se fossero degli alieni atterrati dallo spazio. Chiese loro cosa ci facessero in quel luogo, se fossero in vacanza. Soddisfatta la sua curiosità, diede ancora uno sguardo alle biciclette cariche di bagagli e filò via allontanandosi per il vicolo, senza aggiungere nient’altro e senza rivolgere un saluto. A parte quel bambino, il paese sembrava disabitato, non c’erano rumori di alcun tipo. Dopo un buon quarto d’ora di attesa, arrivò una donna, che aprì il bed&breakfast e mostrò loro la camera.

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C’era tutto l’essenziale di cui potevano aver bisogno per dormire una notte, era tutto tenuto pulito e in ordine, quasi meglio di un albergo. Al piano di sotto c’era la sala della colazione, la donna disse che se volevano potevano anche cenare. Quando però, dopo un po’ di tempo scesero a portarle i documenti, trovarono un carabiniere e preferirono cercare un altro posto per la cena. Non che avessero nulla da nascondere, ma avere un rappresentante delle forze dell’ordine come vicino di tavolo non era proprio il massimo: i carabinieri avevano un dono nel far sentire a disagio chi gli stava intorno, anche quando uno sapeva benissimo di non aver fatto niente. Specialmente se erano in divisa e con un’arma alla cintura.

Così cenarono in una pizzeria, poi girarono a lungo per i strettissimi vicoli, in cui passava a malapena una persona. Nonostante ciò, stranamente, le automobili parcheggiate riuscivano a trovare posto.  Le case sembravano disabitate, solo qua e là si intravedeva qualche luce alle finestre.

Si faceva fatica a credere che tantissimi anni prima, senza gru e mezzi meccanici, si fossero riusciti a portare tutti quei massi fin lassù e costruire muri così alti.

Davanti al municipio trovarono un’auto che, pensarono, doveva essere l’auto blu del comune: una panda, blu per l’appunto, con la scritta “Comune di Ponzano Romano”.

Anche la mattina dopo, mentre preparavano i bagagli, il paese era immerso nel silenzio e sembrava abbandonato. Eppure dei segni di vita c’erano, come i panni stesi sui fili tra i balconi ad asciugare, che in realtà, erano posizionati troppo in alto rispetto alle finestre, impossibile capire come fossero arrivati fin lassù. La signora venne a portargli la colazione, e mangiarono nella buia sala dove la sera prima avevano incontrato il carabiniere. C’erano cornetti, burro e marmellata, per la maggior parte tutta roba impacchettata, niente dolci fatti in casa.

Mentre tiravano fuori le bici nel vicolo deserto, ripassò il bambino, chiese loro: “Siete ancora qui?” e si perse di nuovo chissà dove.

Dalla terrazza della piazza, sotto il primo sole mattutino, si poteva godere della vista del Tevere; là il fiume formava una lunghissima ansa, piegandosi su sé stesso.

L’acqua si intravedeva in mezzo a due file di alberi. Sulla sinistra, poco più in là, c’era l’autostrada, che da lassù appariva piccola piccola, con le auto in miniatura che la percorrevano avanti e indietro.

Dall’altra parte del fiume si vedeva Magliano Sabina, un paese che era esattamente di fronte a Ponzano Romano. Probabilmente, dai campanili delle due chiese principali, posti esattamente uno davanti all’altro, la gente si parlava scambiandosi segnali di fumo. Il Ninja spiegò ad Assunta che Ponzano era l’ultimo paese di quella zona che fu Etruria, mentre Magliano Sabina era il primo paese della Sabina. Il fiume segnava un confine naturale tra le due regioni.

 

Da Ponzano scesero per un bel po’. Arrivati sulla provinciale, videro una strada bianca non asfaltata. La presero, ma portava per i campi e poi si interrompeva, così tornarono sulla via principale e proseguirono. C’erano due auto di carabinieri in sosta, sembrava quasi che si fossero fermate tra di loro.

La strada iniziò a salire. Con la marcia leggera la si poteva pedalare in tutta tranquillità, lentamente e chiacchierando. Erano su quella che i due viaggiatori definivano “salita onesta”, cioè dalla bassa pendenza. Si trovavano in mezzo ai boschi e il tragitto diventava piacevole.

Poi scesero di nuovo. D’improvviso in mezzo alla campagna, apparve una specie di parco giochi, delle giostre da lunapark, con grande folla di uomini, donne e bambini. Si allontanarono in fretta da quel casino e incrociarono due tizi in bicicletta che gli dissero di andare via subito. Infatti nella direzione opposta alla loro, stava arrivando un gruppo di ciclisti in corsa. C’era una gara. Scapparono via e si ritrovarono finalmente a pedalare attraverso i prati.

Arrivarono a una fonte, sulla quale c’era scritto “Fonte di acqua benedetta, Madonna del Piano.” Un po’ discosta dalla strada c’era infatti una chiesa, che però era chiusa. Riempirono le borracce, l’acqua zampillava da un tubo e andava a finire dentro una vasca piena di muschio e probabilmente di girini e poi si riversava sul terreno creando dei rigagnoli. Era fresca e buona.

Ma ecco che dopo una curva e una piccola salita li aspettava lo spettacolo più brutto che avessero mai visto. In mezzo ai verdi prati, infatti, ben visibile dalla strada principale, c’era un’installazione di statue di cemento, di quelle finte di cattivissimo gusto che si usavano per decorare i giardini. Un cartello grosso col nome e i contatti della ditta che li produceva e delle bandierine dell’Italia.

Dopo aver abbondantemente fotografato quello spettacolo orrendo allo scopo di documentarlo, fuggirono via ancora una volta.

Attraversarono il fiume e si ritrovarono di nuovo su una via tranquilla con case sparse qua e là. Davanti a una casetta, sui fili dei panni stesi ad asciugare, c’era una divisa, quella che usavano gli autisti della società dei trasporti del comune di Roma. Un segno del fatto che ancora non si erano allontanati molto dalla città che continuava a far sentire la sua presenza anche a quella distanza.

Si stavano avvicinando alla stazione di Orte, infatti erano ormai sopra la ferrovia, quando incontrarono un ponte che la attraversava.

Arrivati a Orte si fermarono a mangiare a una trattoria che si chiamava il Caminetto. Un posto carino e tranquillo, ma non ebbero nemmeno il tempo di mettersi comodi, che ecco arrivare un gruppo di nonni coriandolo. Evidentemente al ristorante dovevano essere abituati ai ciclisti, perché la donna che li accolse permise loro di mettere le biciclette all’interno, purché con le ruote non sporcassero il muro. Il locale si riempì di rumori dello spostare di sedie, del tintinnio di bicchieri e posate, di voci (che quantomeno, di positivo avevano di coprire la voce della televisione che era accesa a tutto volume sul programma più osceno mai trasmesso, indovinate voi quale). Dalle loro chiacchiere, i due capirono che i ciclisti erano partiti da Roma quella stessa mattina, peraltro proprio dalla zona da cui loro stessi erano partiti il giorno prima, e ora avrebbero preso il treno per tornare. Nel frattempo, naturalmente dovevano recuperare le energie perdute, perciò si sedettero e divorarono tutto ciò che poterono. Nemmeno i due viaggiatori furono certo da meno.

 

Penna in Teverina

 

44.

Mentre salivano lungo i tornanti, nel basso sole pomeridiano, incontrarono un vecchietto che a piedi, pian piano, risaliva verso la cima della collina. Lui li salutò cordiale e proseguì.

Loro lo superarono in bicicletta, ma subito dopo, sfiniti dalla salita, si fermarono a riposare sul ciglio della strada, vicino ad una vasca che un tempo doveva essere piena d’acqua ma che ora era asciutta, con la prospettiva di vederselo arrivare da un momento all’altro, col suo passo lento e regolare.

Ripresero il cammino, ormai erano arrivati a Penna in Teverina. Questo era evidentemente un paese di camminatori che la domenica mattina se ne andavano per i campi a raccogliere erbe e la sera risalivano verso casa. Inoltre era anche una terra dove i bambini montavano biciclette più grandi di loro, finché si spostavano all’interno dei confini del paese: il loro tragitto era casa scuola, scuola casa, non prima di essersi fermati a giocare o chiacchierare sulla strada davanti al bar con gli amichetti. Quando crescevano e i loro confini si allargavano, probabilmente scendevano dalla bicicletta, che era complicato portare lungo la salita, e iniziavano a camminare. Gli abitanti più sedentari, invece, non si spostavano, ma arrivavano al massimo fino al bar dove rimanevano perennemente seduti tutta la giornata. I frequentatori del bar erano per lo più uomini di mezza e anche terza età che vivevano ascoltando la radiocronaca delle partite o dei gran premi che con l’altoparlante era comunque udibile da tutta la piazza, e giocando a carte.

Presero un succo di frutta e sedettero un po’ a riposarsi davanti al bar. Dal giardino di una grande casa arrivava un vocio di ragazzini che giocavano a pallone. Uno di loro raccontava la storia di quella casa, diceva che era molto antica, che l’aveva comprata suo nonno. Mentre riempivano le borracce alla fontanella sulla piazza, notarono una bacheca che doveva appartenere al partito democristiano: una scritta si schierava senza mezzi termini a favore del precedente presidente del consiglio.

Da Penna in Teverina iniziarono a scendere dal lato opposto della collina. Incontrarono lungo la strada folti gruppi di camminatori che andavano nell’altra direzione rispetto alla loro (gli abitanti più nomadi di Penna in Teverina appunto).

Intanto erano già in direzione di Giove, e, ancor prima di accorgersi di aver sbagliato strada, perché erano entrati nel paese che avrebbero dovuto solo sfiorare dall’esterno, erano già lanciati su una discesa ripidissima a 60 Km/h. L’errore non stava infatti nella direzione da seguire, ma nell’aver preso la strada più ripida per arrivare a valle. Per fortuna, l’avevano presa in discesa, perché nella direzione inversa, sarebbe stato alquanto arduo. In realtà così avevano forse guadagnato un po’ di chilometri.

 

Lungo la strada c’erano diversi cartelli: “Vendesi sabbia del Tevere”. Assunta pensò al suo bel mare azzurro con le spiagge dalla sabbia chiarissima e finissima e immaginò un cartello che diceva “vendesi sabbia di mare”. Perfino in questo periodo di privatizzazione e mercificazione di tutto, sarebbe stato impensabile vendere quella terra di cui ognuno poteva usufruire liberamente e a piacimento. Invece il Ninja le disse che la sabbia del fiume era molto utilizzata per l’edilizia. E c’erano vere e proprie guerre tra chi aveva interesse a prelevare questa risorsa.

 

Alviano

La strada per Attigliano era tutta in pianura. Lunga e affiancata da case gialle.

Attigliano era caratterizzato dalle strisce blu. Poche case accatastate su un unico incrocio, senza una vera e propria struttura di paese: davanti ad ogni casa però, c’erano le strisce blu per il parcheggio.

Da lì seguirono le indicazioni per la stazione di Alviano.

Anche qui la strada era tutta in pianura, e passava attraverso prati e campi.

Al tramonto, i due arrivarono in un punto dove l’accesso alla strada per le auto era interdetto. Loro proseguirono con tranquillità, pensando che alla peggio avrebbero potuto piazzare la tenda in un punto qualsiasi in mezzo ai campi. Già cominciavano a guardarsi intorno alla ricerca di un punto strategico prima che il buio li sorprendesse, quando arrivarono a un bivio: un cartello segnava Alviano scalo verso destra e un agriturismo a sinistra. Andarono prima a sinistra, c’era una casa con una veranda che dava su un piccolo giardino. Sulla veranda, un’altalena. Sembrava tutto abbandonato. Suonarono a lungo, chiamarono, ma non vi fu risposta. Così andarono verso Alviano, anche se ormai si stava facendo buio e quasi per miracolo trovarono un affittacamere proprio davanti alla stazione. Il proprietario possedeva anche il ristorante. Fece loro un prezzo che lui definì “minimo”, che però non comprendeva colazione né cena, anche se, guardando il listino prezzi alla porta della camera, scoprirono che il prezzo minimo era ancora più basso. Almeno gli aveva permesso di mettere le bici al coperto, dentro una sala che probabilmente veniva usata per ricevimenti.

Quella sera cenarono al ristorante, in compagnia di un tizio dall’aspetto di boss mafioso, che dal suo  tavolo sembrava guardare tutto con l’aria del padrone davanti al quale chiunque si fa in quattro per servirlo, e di una  bionda con maglietta leopardata che girava tra i tavoli, e non si capiva che relazione di parentela/ amicizia avesse con la famiglia proprietaria del locale.

La stazione di Alviano era un luogo completamente anonimo. Anche questo era un insieme di case in mezzo a cui passava la provinciale. Non si poteva dire che fosse brutto, ma nemmeno bello. Attraversando la strada, dietro a varie vie secondarie e case, e a una piazzetta/marciapiede con una targa ai caduti di guerra, c’era un grande prato, con delle piccole pozze di acqua piovana, in cui si riflettevano i primi raggi del sole della mattina. Al di là del prato, molto lontano, le colline. Assunta che era uscita di mattina presto, col sole che sorgeva a dare un’occhiata intorno, tornò indietro verso l’hotel, ripassando da una casa con giardino che confinava proprio col prato, e dalla chiesa, una chiesa moderna in mattoncini rossi, di quelle costruite in tempi recenti con forme sempre più sconcertanti.

Dopo colazione, Assunta e il Ninja chiesero alla donna che stava al bancone (la madre del proprietario), da dove potevano entrare nell’oasi di Alviano.

L’accento in questa zona cambiava notevolmente e il dialetto diventava decisamente umbro. La donna non aveva assolutamente idea di dove fosse l’oasi del WWF, e probabilmente non l’aveva nemmeno mai sentita nominare.

Sulla strada, una giovane mamma che aspettava lo scuolabus insieme al figlioletto, li indirizzò verso il paese successivo, da dove sarebbero potuti entrare all’oasi.

Infatti poco più in là trovarono un ponte sulla ferrovia, e oltre il ponte iniziava un sentiero non asfaltato, su cui c’erano i cartelli del WWF che indicavano il percorso ciclabile. Dal lato opposto al percorso c’era un casone giallo e dietro a questo una casa in pietra. Accanto un capannone per gli attrezzi e i macchinari agricoli. Nel capannone, in mezzo a roba d’ogni tipo, trovarono persino un paio di sci d’acqua. Poche tracce di vita, sembrava tutto abbandonato. C’era anche una vecchia renault bianca scassata.

Presero il percorso ciclabile, ma a dispetto del cartello, era un sentiero accidentato, quasi impossibile da percorrere, almeno con le bici da strada. In compenso però il paesaggio era bellissimo, pedalavano in mezzo all’erba alta, non c’erano auto a intralciare il passo e gli unici rumori che si sentivano erano i versi degli uccelli, il ronzio degli insetti e lo scorrere del fiume che per l’appunto passava proprio di fianco a loro. In quel punto, le coste erano molto alte rispetto all’acqua e tutto era protetto da un groviglio fitto di alberi e cespugli in mezzo ai quali si potevano appena intravedere uccelli di ogni tipo che nuotavano o volavano a pelo d’acqua, o appollaiati sui rami. Data l’inaccessibilità alle rive del fiume, la vita di questi volatili si svolgeva per lo più tranquilla. C’erano cigni, anatre dalla testa rossa che si tuffavano continuamente, cormorani piazzati su paletti di legno piantati nell’acqua.

Ogni tanto davanti a loro volavano degli insetti stranissimi, un misto tra ragni volanti ed enormi zanzare.3.

Arrivarono davanti a una grossa costruzione circolare, che sembrava molto recente e al cui interno dai vetri si vedevano tracce di quelli che dovevano essere stati (o sarebbero dovuti essere) uffici, forse di informazioni per l’oasi o qualcosa del genere. Sembrava non finita ma non c’era traccia di cantieri che segnassero una qualche continuazione dei lavori. Al solito, tutto era abbandonato. Dietro questa costruzione, c’era un altro casale antico, forse in origine proprietà di famiglie contadine. Più avanti, invece, c’erano dei cantieri e l’uomo che guidava la ruspa, fermò la macchina per farli passare.

Finalmente giunsero all’oasi ufficiale del WWF. Un pezzo di terra recintato e chiuso al pubblico da un cancello su cui campeggiavano scritte del tipo “ingresso vietato ai non visitatori”, “il luogo è aperto alle visite giorno tot, ore tot”, “il prezzo del biglietto è:” “le visite fuori orario vanno prenotate”. Poi “area videosorvegliata” e “si prega di fare silenzio”. Ancora, simboli del WWF, del comune di Alviano (anche se non si era più ad Alviano), della provincia, della regione, e di altri 4 o 5 enti pubblici. Accanto al cancello c’era una bacheca nella quale erano esposti pezzi di rifiuti di diverso tipo, con accanto indicato il loro tempo di degrado nell’ambiente, perciò con la richiesta di non disperderli. Era un luogo usato soprattutto a scopi didattici o per promuovere campagne di sensibilizzazione volte alla protezione dell’ambiente. Infatti, quasi in risposta al cartello che pregava il silenzio, arrivò un vocio di ragazzini, con a capo una donna che faceva loro da guida e che li radunò tutti in un angolo per dar loro le prime informazioni utili sull’oasi prima di portarli all’interno. Poi un tizio uscì dal cancello e lo richiuse, e grazie a lui scoprirono che non solo le visite oltre gli orari di apertura, ma anche quelle normali dovevano essere prenotate. Vedendo arrivare la valanga di ragazzini rinunciarono volentieri alla visita, dato che la cosiddetta oasi non aveva nulla che si adattasse al nome: il vero paradiso, lo avevano appena attraversato, per arrivare fin lì.

 

 

Dafne Rossi

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