Piscinola

prendo la linea gialla, la nuova, insomma, la uno. Ho questo barboncino tra le braccia che sembra finto, tiene negli occhi due spugne bagnate. C’è un’aria umida quaggiù, siamo sotto la pelle, nel vano sudato del giorno. Sento da qualche parte i pori di cui parlano, sembro un pesce che cerca la sua testa d’oro. Da quando sono qui non parlo a nessuno. Un bambino che non parla ma sente tutto, assorbe. Pori.
La linea gialla è quella che porta a Piscinola; che poi Piscinola è solo un nome, chi ci va mai a Piscinola.
C’è un tizio seduto che maneggia un telefono e mi guarda. Sono seccato. Scendo a Università, percorro Mezzocannone e imbocco il decumano inferiore che accarezza santa Chiara: nel trecento la città finiva qui. Esco da un’invisibile porta puteolana, nessuna clarissa in giro ma so che in qualche retrocoro aspettano ancora che un Giudizio le rilanci, oltre i rintocchi dalle alte campane sulla torre, nelle volute azzurre del cielo. Mario mi aspetta sotto l’obelisco del Gesù nuovo. E’ un vecchio amico Mario, mi ha chiesto di portargli un cane ed eccogli qui il barboncino.
– ho bisogno di un po’ di compagnia, mi dice, mentre aspettiamo la pizza. Non è triste, ma una specie di dolore gli cammina negli occhi, va avanti e indietro. Stacca un cornicione della pizza e lo avvicina alla bocca del cane, -sù mangia, gli fa, ma il cane gira la testa. Il cameriere porta insieme al conto un bigliettino, Mario lo legge e poi mi dice di andare, -fai presto, dice, tremando. Prendiamo la funicolare, saliamo a San Martino e rimaniamo a dormire su una panchina davanti alla città, senza nemmeno pensare più al cane. Quando mi sveglio sono solo. Nè Mario né il cane. Me ne scendo piano a piedi e ripenso a quel biglietto. In effetti, non so nulla di Mario, questo mio vecchio amico di scuola che era bravo in matematica e giocava a pallone da dio. Cerco di rintracciarlo ma non lo trovo allora vado in quella pizzeria e vedo una ragazza che mi fissa e poi con la mano mi fa cenno di seguirla. Mi dice che Mario si è cacciato in un brutto guaio e mi conduce in un sottoscala. Mentre scendiamo sento abbaiare. Arriviamo in una specie di aula quadrata, con delle grate in alto e un crocifisso girato al centro della parete; per terra, all’ingresso, file di scarpe. Su un lato c’è un gruppo di suore in preghiera, sembrano manichini senza occhi, dall’altro lato una specie di manigoldo che soffia dentro una tromba. La ragazza estrae una pistola e me la punta alla tempia. Spara ma la rivoltella s’inceppa. Un uomo in divisa mi strattona con la sua mano grossa, io mi sveglio ma sono ancora assonnato. Il controllore fa cenno che siamo al capolinea, Piscinola; io guardo dal finestrino un marciapiede vuoto, incolore, scendo dal metrò impaurito, proprio non so dirmi perché mi trovi qui, chi sia Mario, per quale incomprensibile ragione si scrivano storie, da dove vengano queste cagne in cerca di un padrone, chi le caccia, da cosa?

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