Recensione di Donatella Pezzino a “E mi domando la specie dei sogni” di Giovanni Perri

Ogni poesia è un’occasione di sogno e di bellezza. E la bellezza è un lavoro paziente di scavo. Io sogno di essere archeologo e scultore: levigo negli affanni e a volte mi trovo a scoprire che la vita è un’invenzione stramba dei poeti che tutto sanno fare fuorché vivere. (Giovanni Perri)

Sono davvero pochi gli autori che sanno autodefinirsi, e ancora meno quelli in grado di farlo senza scadere nell’autocelebrazione o nella più trita retorica. Giovanni Perri può essere considerato a tutti gli effetti uno di quei pochi: e la sua prima silloge, lungi dal riassumere semplicemente la sua poetica, riflette un percorso interiore dove la realtà onirica appare non tanto come un modo per sfuggire il male, la sofferenza e il vuoto, quanto come la risposta al bisogno di trascendere e superare quelle tristezze per trasformarle in sogno. Non a caso il titolo “E mi domando la specie dei sogni” pone immediatamente all’attenzione del lettore ciò che costituisce la cifra di tutta l’opera: quali siano la natura e l’essenza di questa materia fantastica che il sentimento umano plasma e dalla quale, inevitabilmente, viene plasmato, in una sorta di anello di Moebius che riduce il dualismo “vita reale -sogno” a pura illusione. E’ questa la “poetica del sogno” di Giovanni Perri, una strada a senso unico affacciata su orizzonti imprevedibili e continuamente cangianti dove ciò che prende forma non è l’immaginazione ma il sentimento stesso: dolore, gioia, rimpianto, diventano allora immagini che si susseguono senza un apparente filo logico, sapientemente illustrate da un ricorso alla sinestesia più o meno velato che accosta colori, suoni e odori per creare combinazioni infinite. In tutto ciò, la valenza della parola assume una dimensione grandiosa e al tempo stesso tenue come un sussurro. Il verso entra in punta di piedi, senza far rumore, senza preavviso: cominciando sempre con la lettera minuscola, ogni poesia del Perri semplicemente appare, in soluzione di continuità, da un tempo all’altro, da uno spazio all’altro, passando dolcemente dal caldo al freddo, dalla sabbia alla neve, come fa il pensiero. Un paziente lavoro di scavo, alla ricerca di profondità celate nello stesso nodo esistenziale dell’animo umano, porta alla luce la “materia” a cui il sogno dà luce e colore: ricordi, impressioni, affetti. E come il bagatto di “Vi dico”, poesia che apre l’opera con l’immagine di “un tavolino pieno di concetti/e di poesie giocattolo per farvi divertire”, con questa materia il Perri mescola, costruisce, affabula, fa nascere fiori improvvisati. Sotto la pelle del poeta si nascondono il giocoliere e la maschera tragica, il bambino e il vecchio, l’inizio e la fine; tutti gli opposti si appianano in un solo afflato, perché è così che il sogno ci parla, senza fratture e senza contrasti, facendo apparire logiche anche le cose più incredibili, cogliendo lo sbocciare gioioso della vita anche in mezzo al gelo immobile e desolato dell’inverno:

Che meraviglia questo vento

e questi uccelli

che cambiano rotta

e questi bimbi

che giocano a rincorrersi tra i morti.

In questo contesto, l’amore è più simile a un desiderio che a qualcosa di compiuto e riconoscibile. Per afferrare il concetto perriano di amore basta soffermarsi su “Due”, in cui l’amore, quello romantico e ideale, è un lungo gioco che svela, alla fine, l’unico desiderio, struggente e dolce nella sua semplicità, di annullare le distanze, le barriere che la vita di ogni giorno, inspiegabilmente eppure ineluttabilmente, pone anche tra le anime più affini:

faccio che ti somiglio

che ti comprendo

che ti consumo faccio

che ti ritaglio

in giorni e ore da un treno all’altro

da una luna all’altra

da un tetto che il sole e la pioggia

alla fermata di una parola qualsiasi

messa all’angolo di una bocca

che ti arrampico

alfabetico e mimico

un suono d’acqua alle mani

e ti raccolgo e ti sento

mio albero

mio teatro invisibile

cuore del mio indizio

come se tutto me

e tutta te

fossimo nell’impresa di capirci veramente

Eppure a volte, attraverso il “fondo del bicchiere”, la realtà dell’uomo solo, puntino invisibile in una sterminata altritudine che lo ignora, si intravede, impietosa e scabra. In “Clochards”, questa umanità è più lontana che mai, fuori dalle scatole preconfezionate dove l’esistere non basta a rendere uomo un uomo:

e non ci sono comodini o pantofole a proteggermi

e non ci sono sveglie

qui trattano il rosso per il rosso

l’azzurro per l’azzurro

Talora solo piedi.

gomiti che m’inchiodano

addirittura dita.

E’ il momento in cui nessun equilibrismo onirico può soccorrere il poeta, nessuna voce che non sia la nuda, dolorosa parola:

i bambini lo sentono

che non ho un corpo da dare

che non ho suoni o numeri o lettere incise sulla porta

lo sentono tutti

che non ho porta

che ho solo secrezioni in una lingua antica

e non compongo nessuna geografia negli occhi

occhi che cercano un punto

una chiave

dove io possa morire in eterno

Non si può fare a meno di notare, tuttavia, come in Perri anche il dolore non sia privo di una sua dolcezza sognante, estranea a qualsiasi pessimismo cosmico. Da forza ostile, granitica, che devasta l’uomo e lo abbatte, il dolore diventa infatti lo strumento positivo di un sé che cerca il proprio assoluto, il proprio senso e la propria intrinseca verità:

e speri sempre speri

che un dolore

a caso

ti scopra

In questo scenario, scrivere trasforma l’ombra in riflesso e aiuta a prendere coscienza del sogno che stende un velo sui giorni, della poesia quale creatura che è costola e al tempo stesso vita:

-ciò che scrivo è mio figlio

e la mia pancia e la sua-

E dunque, alla fine di questo percorso in cui i versi sono “inutili spettacoli volanti” – radici conficcate nella terra ma anche mosche, evanescenti e imprendibili- di quale specie saranno fatti i sogni? Di polvere, probabilmente. O di silenzio. Di qualsiasi cosa, insomma, che si possa modellare, scavare, cercare di afferrare o addirittura chiudere in un cassetto e dimenticare:

fianchi e nuvole

spazio nel mio infinito sospeso

*

Donatella Pezzino

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7 Comments

recensione favorevole che mi gratifica, per la grazia in cui annoda con perfetta adesione i miei versi alla maglia della lettura. Grazie Donatella le tue parole sono per me motivo di grande felicità e orgoglio.

Condivido con grande piacere il lavoro di recensione di Donatella Pezzino, fine e acuta poetessa, alla mia recente raccolta poetica. Una lettura attenta e decisamente ben scritta che mi gratifica ben oltre ogni mio ipotetico merito.

Grazie a te Giovanni per questa opera di rara bellezza.

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