recensione a “Ferito a morte” di R. La Capria (Giovanni Perri)

ferito a morte imm.

Qualcosa si muove nei fondali ed è già muta impressione, improbabile sogno, vischiosa immagine di un mondo subacqueo senza confini. La Capria si proietta subito fin dentro questo mondo marino lasciando vagare indisturbata, nel silenzio corposo dei meandri, La Grande Occasione. Quella dimensione obnubilante carpita sotto i raggi perduti del mezzogiorno. Sono i movimenti dell’anima,  il respiro del mare. I segni di una lucidità sottilmente pervasa da lampi onirici, che nutrono e distruggono la coscienza turbolenta e inquieta di Massimo; il suo ventre latino corroso come il tufo del palazzo che un tempo sorgeva dal mare. La sua “Bella Giornata”: una rovina percorsa col sentimento di chi guarda il male atavico nelle sue multiformi apparenze, fotografandone i singulti, senza recedere di fronte a nulla: ai moralismi; alle caritatevoli giustificazioni; alla “persuasive Crociane”, pur tuttavia lodevoli queste, nella loro astigmatica ideologia, d’aver cavalcato dall’alto la muta inquietudine partenopea alla ricerca di una possibile identità (la storia).

Una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutt’e due le cose insieme”. Una città che annega nel fango, che enuclea dal magma dell’inettitudine, dalla fanghiglia del disordine, dall’imbroglio, dalla decrepite lascivia, la quotidiana pantomima; la sinistra simpatia contro la quale La Capria si scaglia, puntuale nel dipingere ritratti tipici. “Una società come quella napoletana produce spontaneamente tipi come questi; servono a far apparire divertente una vita che invece è noiosa”.

Cosi prendono corpo i vari Sasà, Glauco, il fratello Ninì, Rossomalpelo, Guidino Cacciapuoti. Tutto un coacerbo di figli inconsapevoli del ruolo preciso che la Gran Madre o se vogliamo La Gran Gatta ha loro assegnato, rendendoli dimentichi di una possibile coscienza critica.

Un pessimismo apparentemente incostruttivo quello di Massimo, la cui Evasione costituisce il nerbo attraverso cui il personaggio (alter ego di La Capria) insieme a Gaetano (sua vera coscienza critica) proiettandosi in una dimensione altra (quella romana o quella milanese) frantuma senza sentimentalismi il mito, quella Foresta Vergine logora, quasi nauseabonda che lo ha formato come uomo e come uomo lo ha abitato coercitivamente.

E perché non restare e cooperare al miglioramento? Ci si potrebbe chiedere. Perchè fuggire lasciando dietro tutto? Il circolo; i pranzi domenicali; Middleton; la malattia ancestrale di un popolo immondo? Perché? “PERCHE’ CHI RESTA SARA’ SOPRAFFATTO!” Chiosa Massimo. E con lui La Capria, sintetizzando una precisa ideologia, una sensazione, il solco di una sofferenza criptica, enigmatica, la sofferenza di un uomo solo, per sempre circonfuso di quell’identità torbida, livida, stravolta. Un uomo sin da piccolo già oltre col pensiero. Già proiettato verso quella lontananza che non è nostalgia pietistica, ma lucida e tellurica consapevolezza, orgoglio non divelto, idiosincrasia per una città che in fondo ama.

Giovanni Perri

 

 

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