Recensione “Tè Verde” (Alessandra Piccoli) di Antonella Lucchini

Come si legge un libro di poesie?

In una volta, 50 poesie come le tessere di un domino, la prima inizia la sequenza, le altre a pioggia? Oppure a sorsi, lenti.

Per commentare “Tè verde” (ed. Cicorivolta), la seconda raccolta di Alessandra Piccoli, mi è venuto spontaneo leggerle tutte, una dopo l’altra, in una sera. Perché lasciarsi travolgere da una slavina di parole cucite in apparente inattinenza, è una “morte” fascinosa, irresistibile. Trovo che lo studio e la ricerca attorno al linguaggio, stiano alla base dello scrivere, scrivere poesia in particolare, e Piccoli ne è portatrice impetuosa ed esigente: “…/abbaiando al frigo muto/…” (da Ramingo), “…/che afferrano pianeti rossi/immersi nei miei spazi alcolici” (da Il respiro delle amarene) sono solo due esempi.

Ricorrono e si rincorrono termini nelle poesie di Alessandra: sostantivi che riportano parti del corpo (mani e dita, fra tutti), aggettivi e sostantivi che ci restituiscono la sensazione di freddo, direttamente o indirettamente (sasso, marmo, freddo, gelo, neve), frequenti riferimenti all’aria o al vento, al cibo.

Poesia del corpo, poesia di pancia.  Poesia d’amore. E qui, è necessario fissare uno spartiacque, che in questo genere di poesia individuo nel lessico, sostenuto dal linguaggio. Il distinguo è d’obbligo perché le poesie di Tè verde non sono post-stilnoviste, termine che io impiego in tono “diminutivo”, intendendo quei testi pieni di termini banali, retorici, il cui senso è quasi sempre la contemplazione dell’amato/a: poesia d’amore bassa e orizzontale. No. L’amore di cui parla Piccoli (difficile, pensoso, dolente, eccetto l’amore bello e viscerale per i figli) è sostenuto da un lessico di notevole rilevanza, mai banale, estremamente creativo e proposto in un linguaggio che a volte pare azzardato, inattinente, come detto più sopra, ma per questo affascinante e penetrante, spiazzante e coinvolgente, che la rende immediatamente riconoscibile. I vocaboli quasi mai sono “difficili”; l’autrice ci insegna che la poesia passa, ci filtra, se le parole sono quotidiane, di facile assimilazione: è il loro gioco, è saperle sapientemente avvicinare (questo è talento) la differenza che fa di una poesia un’ opera d’arte e non una lista della spesa.

La prima volta che la lessi, anni fa, restai molto colpita dall’introduzione, un po’ spregiudicata, del cibo, come parte del suo lessico. Se ne trova traccia anche in questa raccolta. Non si dimentichi che si parla di poesia d’amore: amore e cibo si sostengono a vicenda, come elementi nutritivi imprescindibili, in un interscambio originale e molto azzeccato.

Poesia alta e assolutamente verticale, che passa attraverso, che scosta la pelle, a volte brutalmente, e finisce in circolo, cibando il lettore.

A chi servono poesie di questo tema e tenore? In un momento culturale in cui parlare di sé sembra autoreferenzialità pedante e inutile, ha senso parlare dei propri mali? E’ egocentrico ed egoista non parlare di ciò che pure si vede, nel mondo?

Sorrido sempre un po’ quando leggo critiche che smontano le poesie d’amore.

Il nostro mondo non è un mondo di soli vegetali, è un mondo di persone; tra loro, molti fortunati hanno vissuto o vivono l’amore, tra alti e bassi, tra felicità e suicidi dell’anima. Quanti vivono le stesse pene, gli stessi smottamenti interiori! Quanti, quindi, si possono identificare nelle parole di Alessandra, quanti, leggendola, si leggeranno? Già due non sono più IO, ma noi, e l’universalità, non è un magma di tanti noi?

Si scrive di ciò che viene a galla, soprattutto nel caso della nostra autrice, che, quasi come una scrittura automatica, rilascia angeli e demoni del suo inconscio in mezzo alle parole, per loro mezzo.

 

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