Rinunci a EXPO e a tutti i suoi inganni [contiene “Decrescita e cooperazione non etnocentrica” (2010)]

no expo 2015

 

Pubblico volentieri questa riflessione, scritta a margine di un incontro-dibattito tenutosi nel 2010 presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Firenze, organizzato dai gruppi CUSA e Ingegneri Senza Frontiere – Firenze, con la partecipazione del Collettivo Libertario Fiorentino, del Libero Ateneo della Decrescita e del prof. Renato Libanora, docente di Cooperazione allo Sviluppo.

E’ e vuole essere un ulteriore spunto, per trovare una via alternativa alle logiche buoniste, pietiste e caritatevoli dell’EXPO che si tiene a MIlano, come di più o meno tutta quella che viene attualmente definita “cooperazione allo sviluppo”.

 

 

Scrivo queste righe sull’incontro di giovedì 18 a titolo del tutto personale e senza alcuna pretesa di provare a tirarne le fila. Giacché non ci sono fila da tirare e anche ci fossero, sarebbe impossibile farlo quando si finisce con più dubbi e domande di quando si era cominciato.

Sperando di non contraddire subito quando appena detto, mi è parso che su almeno un punto dell’incontro ci sia stato un accordo, pur diversificato, fra le molte voci che lo hanno animato: il modello di sviluppo economico e politico basato sulla crescita all’infinito è destinato al fallimento ed allo sfruttamento. Sia di risorse naturali, che della vita e del lavoro della grande maggioranza della popolazione terrestre; e come tale va combattuto andando alla ricerca di una via alternativa. Poi si può discutere su quale sia questa via alternativa, o su come intraprenderne una. Ma in generale mi sembra che da parte di tutti/e ci sia stata la consapevolezza che prima di avventurarci al di fuori del mondo supposto “sviluppato” in cui viviamo, si possa e si debba cominciare proprio col sabotare quest’ultimo e le sue logiche perverse. Che non solo sfruttano da secoli altre aree del Mondo. Ma che parallelamente alla necessità di esportare i propri modelli, finiscono col riprodurli anche quando cercano – più o meno “in buona fede” – di cooperare con i popoli di queste aree. E’ il caso, per l’appunto, di più o meno tutta quella che viene attualmente definita “cooperazione allo sviluppo”, che spesso altro non è che la “mano di Cristo” che un sistema marcio come il nostro tende ai suoi dominati, per perpetrare il suo perverso dominio. Questo credo che sia stato a loro modo riconosciuto anche da Ingegneri Senza Frontiere e dal prof. Libanora, i quali diversamente operano o lavorano nella cooperazione stessa, pur con un piglio molto critico e disilluso.

Più controverso mi è parso invece il dibattito su cosa si può fare nel mondo supposto “sottosviluppato”, parallelamente al sabotaggio di quello supposto “sviluppato”, e se in generale sia giusto o meno agirvi in qualche modo. Io credo – e qui devo entrare nel campo delle opinioni del tutto personali – che si possa provare a riappropiarci del concetto stesso di cooperazione. Intesa come normale attività di una società sia locale che globale, la quale voglia evitare ogni forma di sopraffazione fra soggetti diversi. E quindi che – nella prospettiva anarchica in cui penso e scrivo – voglia evitare o ridurre al minimo le pratiche e le strutture di potere. Ripenso criticamente a quello che ci ha detto sulla cooperazione, uno dei padri dell’anarchismo come Kropotkin, oppure a quelle che sono state le esperienze del mutuo soccorso nel socialismo di fine Ottocento e inizio Novecento. Pur tenendo bene a mente che sto parlando di un’epoca passata e andata, comunque relativamente al contesto occidentale.

Ma mi rendo immediatamente conto che assumere questa opinione pone non pochi dubbi ed interrogativi. Primo fra tutti: la cooperazione può restare indifferente difronte alle pratiche e alle strutture del potere dei luoghi in cui opera? Tradotto: si può accettare – ad esempio – l’infibulazione delle donne o le guerre etniche secondo il principio per cui “tu non puoi farci niente perché non puoi sapere che cosa sono per loro, e finiresti col trasferirgli comunque un tuo modello”? Questa domanda, prima ancora di poter cercare una risposta, ne pone subito delle altre ben più difficili. Siamo un’unica specie? Ha senso parlare di “Umanità”? Esistono degli universali? E se sì, quali? L’anarchia, come diceva Malatesta, ha un valore universale?

Io non ho affatto voglia di tirarmi indietro, pur sapendo che mi posso sbagliare, perché sbagliando si impara e non ho paura di fare entrambe le cose. Parto da questo pensiero: chi è anarchico è anarchico in Italia come in Burkina Faso, in Cambogia come negli Stati Uniti d’America. Altrimenti non lo è. Il problema casomai, è capire cosa significa essere anarchici in Italia, cosa significa invece esserlo in Burkina Faso, cosa in Cambogia o negli States. E come ciò si traduce nell’agire in ognuno di questi o altri contesti. Come ci ha detto Foucault, il problema non è cosa siamo in generale, ma cosa siamo qui ed ora in ogni possibile diverso qui ed ora. Da questo casomai – aggiungo io senza pretese né umiltà, se non lo ha fatto lui – si potrà provare a capire cosa siamo in generale, se in generale siamo qualcosa. Ma è stato lo stesso Foucault a dirci come la questione del potere e quella del soggetto siano intimamente collegate. E della necessità di creare nuovi soggetti che rifuggano ogni forma di assoggettamento al potere, ma anche – aggiungo io come sopra – ogni forma di alienazione permanente dal sé nell’oggettività delle cose, essa stessa funzionale al potere.

Allora, se assumiamo quest’ottica, una possibile cooperazione sociale umana su scala sia locale che globale – reciproca e su un piano paritario, come è stato più volte auspicato anche durante l’incontro – non starà tanto a porsi il problema se gli alberi sacri dei villaggi africani siano sacri per davvero, o se gli animisti abbiano parlato veramente con l’anima del proprio bisnonno defunto. Quanto quello di capire se e in che misura questi saperi vadano nella direzione del libero sviluppo di quei soggetti, tanto individuali quanto sociali, che li producono o li assumono. E se e in che misura l’incontro con saperi diversi, può fare altrettanto o meno.

Questo però, implicitamente, forse comporta già il riconoscimento di un universale, almeno umano: quello, appunto, di essere soggetto, inteso dunque sempre in termini potenziali, evolutivi e storici. Ma per essere veramente liberi soggetti, termine che personalmente intendo sempre tanto in chiave individuale quanto sociale, bisogna – direbbe ancora Foucault – “pensarsi al di fuori” del potere e dei saperi che esso produce per il suo autoriprodursi. Ed anche – aggiungo ancora una volta con lo stesso trend – bisogna combatterne le pratiche e le istituzioni. In poche parole, si può ricercare un anarchia universale come espressione multiforme di liberi soggetti in ogni diverso qui ed ora.

Sono conclusioni molto azzardate e rischiose, lo so, come tutte quelle che riguardano gli universali. Ma come detto fin dall’inizio, maturano opinioni del tutto personali e tali rimangono, sospese sul crinale della vita. La vita è sempre una buona unità di misura del valore delle nostre convinzioni.

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