TORNANDO (La nostra fortuna)

Coda. Strano davvero. Non è domenica di partita e per il rientro è presto.
“Che bella giornata è stata!” “Bellissima.” “Speriamo faccia un’estate tutta così.” “Magari.”
Non so che mi succeda oggi. E’ da stamani che va avanti in questo modo. Tutto è come rivestito di una luce che inganna. Ogni cosa solita mi sembra nuova, come la vedessi con gli occhi di un’altra e nello stesso tempo s’è fatta imprecisa, sfumata, mal distinguibile da quello che le sta tutt’intorno.
“Le bambine sono sfinite.” “Povere.” “Aggiusta la testa a Marta, che non so come faccia a dormire piegata così.” “Ecco fatto.”
Ti guardo, con la nuca fresca di barbiere che sfiora il poggiatesta e l’espressione solita che fai quando guidi. Non so perché mi vengano naturali domande mai fatte.
“Deve essere successo qualcosa, non è normale tutta ‘sta coda.” “Si, hai ragione, qualcosa c’è.” “Forse stanno facendo lavori.”
Ad esempio perché ci sia tu, seduto qui accanto a me. Tu, tutto compreso nel tuo ruolo di pilota, come se condurre questa macchina a casa, via Donghi numero sette-garage, fosse la tua personale missione per conto di dio.
“Lavori stradali di domenica? Difficile.”
E che sia tu quel tu, soprattutto, precisamente tu, intendo. Non riesco nemmeno a spiegarmi bene. Voglio dire che dicendo tu, pronunciando il tuo nome, io sappia davvero quello che dico.
“Non t’arrabbiare, arriviamo lo stesso per cena.” “Non lo so, qua la cosa mi sembra sia lunga.”
Mi volto a guardare il finestrino, perché tu non ti accorga che ti sto fissando. Troppo tardi. Il tuo occhio oscilla verso di me e ritorna alla strada.
“Che c’è?” “Niente.”
Di colpo non sono più certa di sapere che significa questo tu che uso riferendomi a te.
“Perché mi guardi così?“ “Sei colorito. Un po’ di sole e diventi subito rosso.”
Ma perché non la pianto? Non c’è niente di cui dubitare. Sono trentacinque anni che ti conosco, mica un giorno: so ogni cosa della tua persona, ogni odore.
“Puoi abbassare la radio per piacere?”
Perché, allora, se sono davvero così sicura di saperti, perché accetto la sfida che mi faccio da sola? Dimostrami che sai di chi parli, avanti. Fammi capire che cosa mai ci sarebbe in lui che lo distingue da un altro.
“Sì, scusa, va bene il volume così?” “Perfetto, grazie.”
Io non so perché accetto. Ne sento il bisogno. Forse perché devo rassicurarmi disegnandoti ancora. Sin da stamattina, quando hanno iniziato a sbiadirsi in me i tuoi contorni.
“Abbi pazienza ma non vorrei si svegliassero le bambine.”
Tanto per iniziare io posso ricordare com’eri, sin dall’inizio.
“Sì, sì, avevo capito. Tranquilla.”
A vent’anni ad esempio eri strano. Spavaldo e timido. (Come tutti i ventenni). Avresti voluto un figlio, per esempio. (Come tutti i ventenni). Per esibirlo al vento come una pianta va fiera del suo germoglio. E posso anche ricordare che sognavi di portarlo sempre in giro, questo figlio che ancora non c’era, come si fa con un gioco. (Come tutti ventenni). E che volevi sempre essere essere unico e pazzo. (Come tutti i ventenni). Poi ti è passata (Come succede di solito trascorsi i vent’anni.)
“Ci sono delle luci blu.” “Sono ambulanze. Deve esserci stato un incidente.” “Madonna, speriamo niente di grave.”
E ricordo il periodo in cui ti eri fissato con la casa da cambiare e quella storia dei soldi che ti sembrava non bastassero mai. (Come tutti i quarantenni). E solo con gli anni, a spuntarti le zanne contro il cemento, hai mollato l’osso pian piano e ti sei fatto fatalista. (Come tutti i cinquantenni). Esistenzialista quasi, che è la tua versione attuale. (Come tutti gli ultracinquantenni). E poi mi viene in mente quando sei stato uno sperimentatore del sesso, intorno ai trent’anni, dopo che era diventato normale semplicemente avermi ogni sera. (Come tutti i trentenni).
“Mamma mia, è una donna!” “No, è un uomo.”
Eppure io lo so che tu sei proprio tu e non sei nessun altro.
“Ho visto le scarpe, ti dico che era una donna.”
Tu sei educato e gentile (Non è vero, non sempre). La mattina sei di buon umore (Non è vero, non sempre). La sera ti addormenti presto, di schianto, di un sonno bambino (Non è vero, non sempre). Ti guardo di nuovo. Indovino la cheratina della tua epidermide, la melanina che colora la tua cute, immagino di entrare sotto il tuo costato, di scoprire il tuo fegato e dentro il fegato di vedere ogni cellula (Un fegato umano).
“Ma come avrà fatto la macchina a finire lì sopra?” “C’era una moto a terra, non l’ hai vista?”
Allora è proprio così. Non c’è nulla. Siamo due capi di bestiame appartenenti alla stessa mandria e nient’altro. Pestiamo terra pestata da milioni di simili a noi, da noi indistinguibili se non per pochi particolari visibili solo agli esperti e privi di qualsiasi importanza reale, una sfumatura del pelo, un modo più sbieco di tenere la testa. Non c’è niente di speciale nella nostra vita, nella nostra storia, nei nostri occhi, nei nostri figli. Una cecità specifica ce li mostra unici e dipinge di straordinario un racconto usuale, privo di qualsiasi interesse. E tu.
“Quanto sangue per terra!”
Tu non sei altro se non l’esemplare di maschio che la sorte insensata mi ha fatto incontrare quando avevo l’età dell’amore, dell’accoppiamento, della riproduzione. Avresti potuto essere un altro, qualsiasi, e nulla sarebbe cambiato.
“Stasera qualcuno a casa non torna.” “Mio dio.” “Controlla che le bambine stiano dormendo davvero e non vedano fuori.”
Non c’è nulla di nulla che faccia di te qualcosa di diverso da quell’uomo steso con il viso coperto. O me da quella donna senza le scarpe.
“Hai un aria sconvolta. Non guardare.” “No, hai ragione.”
Capi caduti e abbandonati lungo il percorso, annegati con altri decine nel guado del fiume, come a ogni guado.
“Quando si vedono queste cose si capisce che fortuna c’è nell’essere qui, semplicemente, e star bene e tornarcene a casa tutti insieme, è vero?”
Episodi trascurabili, interrotti e rimpiazzati in un attimo, oggi da noi, domani da altri a noi identici in tutto.
“Sì, è vero.”
E presto sarà il nostro turno di scomparire senza una causa, senza uno scopo, senza che questo esserci stati abbia mosso un atomo solo, nel corso delle cose immutato, che non sarà reso diverso dal nostro non esserci più.
“Povera gente, bisogna che non ce la dimentichiamo mai tutta la nostra fortuna.”Mai, hai ragione.” “Lo sai che ti voglio bene?” “Si, anch’io te ne voglio.”

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