Casa-Museo Boschi Di Stefano | Cose così belle che proprio non si poteva non scriverne

ATTENZIONE: il seguente articolo potrebbe urtare la sensibilità di coloro ne sono privi.

Immaginate duemila dipinti. Dove li mettereste? In un museo, verrebbe da dire. Ora, immaginate duemila dipinti, in casa vostra. Dovete vivere con duemila, ripeto: 2000 dipinti in casa. Dove li mettereste?
Siamo a Milano, zona Corso Buenos Aires, anzi, a due vie da Corso Buenos Aires, la fermata della metro di riferimento è Lima, linea rossa. Chiunque sia stato in una grande città conosce quanto possa essere caotica, soprattutto nelle zone nevralgiche, ma la loro magia si nasconde tutta nelle vie parallele, poco frequentate, inesplorate dai turisti. Percorriamo quasi tutta via Jan e, tra varie palazzine, eccone una con due bandiere all’ingresso e dei cartelli a spiegare ai passanti la propria importanza, come se a parlare fosse lei. Si tratta della Casa-Museo Boschi Di Stefano. Entriamo un po’ spaesati, nessuna indicazione (almeno così credo, perché Silvia, molto più attenta di me, ha letto che bisognava andare al secondo piano). Ci ritroviamo un bel po’ di scale da fare, ma girandoci ci accorgiamo che dentro il muro si nasconde un ascensore, si tratta di un esemplare mai visto, almeno dai nostri occhi giovani. Abbiamo il coraggio (Silvia ne ha) di schiacciare il piccolo, quasi inesistente pulsantino nero. C’è una griglia di metallo dipinto a proteggerci dal buco scavato nel muro, dopo qualche lungo secondo, eccolo arrivare ed è per metà occupato da un divanetto rosso, l’ascensore è quasi completamente fatto di legno, di un’eleganza alla quale evidentemente non siamo abituati.
Al secondo piano sentiamo parlottare, le porte che danno sul pianerottolo sono aperte. Entriamo e non facciamo in tempo a godere dell’atrio che subito veniamo portati dalle guardie/guide* al guardaroba. Ci viene spiegato che per esigenze, poi a noi più comprensibili, non si è potuto mettere le targhette ai quadri, così in ogni stanza troveremo dei fogli plastificati con una sorta di piantina a darci le informazioni necessarie. Cominciamo la nostra visita sbagliando, abbiamo chiaramente saltato due sale, ma ce ne renderemo conto successivamente e recupereremo. Ci troviamo nella “camera degli ospiti”, sappiamo che in realtà non ci sono più i duemila quadri raccolti in vita dai coniugi Boschi Di Stefano, ma solo duecento circa. Avrei potuto sottolineare il “solo” della precedente frase, ma era chiaramente ironico. Ai muri vi sono appesi dei Carrà, dei Casorati, dei Funi e anche dei Marussig (scopriremo una particolare affinità tra Silvia e quest’ultimo, ogni volta che andavo a cercare nella piantina-rebus il quadro che m’indicava, era una sua opera). Quando però scrivo che i quadri erano appesi ai muri, non intendo dire che avevano un loro spazio, come nei musei, ma che erano quasi incastrati l’uno dentro l’altro, in una sorta di puzzle fatto con le tele. Appena si posavano gli occhi su un soggetto, ecco subito quello alla sua destra, alla sua sinistra, quello a nord-ovest o a sud-est, richiamare l’attenzione, la magia era iniziata. Andiamo verso il “bagno padronale”, dove sono presenti tre lavori di Ralph Rumney e cominciamo a notare alcuni particolari, come i lampadari in vetro di Murano, tutti di fantasie diverse a seconda della camera, mai banali e ben lontani dal nostro copri lampadina d’IKEA.
Camminando per quelle stanze non si può non pensare al fatto che ci troviamo in una casa. Sui miei muri ho attaccate delle foto, dei ripiani, in futuro ci sarà qualche poster, non dei quadri, o meglio, non dei quadri di pittori così famosi, ma soprattutto così importanti per la nostra concezione d’arte oggi, perché i Boschi Di Stefano vivevano con opere di de Chirico, di Fontana, di Manzoni, di Sironi, di Morandi, nel salotto e in sala da pranzo, ma anche negli studioli e in camera da letto. Tele di pittori che siamo abituati a vedere in ben altri luoghi, protetti da telecamere e sensori di ultimissima generazione, ma che proprio grazie a loro oggi, sono presenti al Museo del ‘900, a Milano e possono essere osservati da tutti il mondo. Quel che più ci affascina di queste camere, oltre alla fatica nel cercare un filo di muro libero, è la storia d’amore che le ha viste protagoniste. È quasi incredibile come l’arte si sia rivelata una forza d’unione che ha portato queste due anime a legarsi indissolubilmente. In quei luoghi non si può non sentire una potenza magica che si trasforma in ammirazione, fra tutte le opere d’arte presenti, la più bella l’hanno creata loro. Quella casa ha visto come ospiti artisti alle prime armi che in prospettiva si sono rivelati dei maestri, ma ha visto, ancor di più, nove gatti curati come figli, Marieda Di Stefano perseguire la sua passione per la ceramica e Antonio Boschi avere l’intuizione della sua vita, quella da ingegnere, da uomo pratico, grazie alla quale ha accumulato le finanze necessarie per ottenere la fortuna della sua vita: i quadri. Siamo abituati, soprattutto in questi ultimi anni, a pensare ai collezionisti d’arte come degli avvoltoi che vedono le opere solo come futuro profitto, ma questa storia è forse come una fiaba e avrei dovuto iniziarla con un “C’era una volta…”, perché la morale è tutta nella loro passione/ossessione, perché quando vi ho chiesto dove attacchereste duemila quadri in casa vostra, avreste risposto: “sui muri”, ma loro li avevano finiti ed erano passati a coprire i soffitti, le finestre, li avevano per terra, ai bordi delle stanze, e la colpa più grande di questo modo di vivere, era degli artisti, perché continuavano a creare bellezze alle quali non si poteva rinunciare.
Marieda morì e ad Antonio restarono quei quadri che si dipinsero finalmente per quello che erano, un simbolo d’amore.
Fra le stanze quei cognomi così grandi diventano di colpo insignificanti, anche quando il signore che ci ha accolti, ci fa notare che di là, nello studio di Antonio, ci sono dodici Fontana. E viene da chiedersi quale fosse il preferito di Marieda e quale quello di Antonio, ma anche come sia stato possibile riunire tutta quella bellezza e poi donarla alla città e permettere a tutti di vederle e anni dopo permettere di entrare in casa propria, per ammirarne qualcuna.
Siamo entrati per primi quel pomeriggio e abbiamo potuto godere della solitudine, fingendo segretamente fosse casa nostra, ma dopo essere stati ospiti del “salotto”, con un bellissimo pianoforte del 1913, ed essere passati per la loro camera da letto, ci siamo ritrovati nel corridoio ed è stato difficile andarsene, perché entrando era per noi un piccolo museo, ma una volta usciti si era trasformata in una splendida casa.

* guardie/guide non è forse il modo migliore per descrivere i volontari del Touring Club italiano che si occupano di sorvegliare, ma forse ancor di più di spiegare e mostrare nella sua completezza la bellezza della Casa-Museo, in ottime condizioni e, soprattutto di questi tempi, ad ingresso gratuito.

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