A GRANDE RICHIESTA

Cazzo. Fica. Culo.
Guarda, guarda. Eccoli che si avvicinano.
Vaffanculo. Merda. Fottiti.
Hai capito! Guarda quanti sono! E come drizzano le orecchie! Pazzesco come tira ‘sta roba. Come il pane tira. Come un pelo di fica (senti come vado forte).
Troia. Pompinara. Stronza succhiacazzi. Frocio.
Buongiorno a lei! Come dice, scusi? Sono volgare? La disturba? No? Meglio così. E come mai oggi si è fermato ad ascoltarmi? Eppure non lo aveva mai fatto, prima. E sì che scrivo tutti i giorni da anni. Che cosa? Oggi le sembro arrabbiato (incazzato) ed è curioso di sapere perché? Ma io sono sempre stato incazzato (arrabbiato), mica è una novità. Se mi conosce dovrebbe saperlo, non ha mai letto quello che scrivo? No. Ecco, mi sembrava. E invece oggi, di colpo eccola qui. Come se qualcosa l’avesse indotta ad ascoltarmi. Non sarà mica per questo nuovo linguaggio? Forse sì?
Mi spieghi meglio, scusi.
Ho capito.
Lei sostiene, in pratica, che questo modo di parlare è più forte, più comunicativo, più “di rottura”. Però, mi perdoni, io non sento altro che gente che parla così. Presentatori e giornalisti, opinionisti e calciatori, pescivendoli e avvocati. Sono tutti vestiti nello stesso modo, fanno e dicono le stesse cose e parlano in questa maniera.
Cagacazzi. Minchione. Cesso. Stronzo.
Scusi per l’interruzione ma mi sembrava si stesse distraendo.
Dicevamo. Se tutti parlano così, che razza di scelta di rottura è?
Io, vede, ad esempio, pensavo di poterne fare a meno. Ogni giorno mi sforzo di scrivere parole che raccontino punti di vista originali, che si ribellino all’esistente, che anelino alla liberazione. Ogni mio pensiero vorrebbe essere un atto di rivolta, un bastone raccolto da terra, un sasso lanciato, un grido che incita a sollevar la testa, una pietruzza che ambisce a inceppare il movimento della ruota dentata, un tormento al riposo, un disturbo alla quiete, uno sgocciolio di lavandino che impedisce il sonno.
Eppure ho il sospetto che nessuno mi legga.
Temo che mi trovino noioso.
Che il mio tono pacato, la mia argomentazione spietata ma priva di scorciatoie, di allusioni sessuali, di insulti, la mia logica disperata, il fluire delle mie parole recitate sottovoce come un eterno riposo, senza grida, venga scambiato per mancanza d’argomenti. Per pensiero debole o peggio. Per pensiero molle, pensiero ricotta, pensiero purea.
Poi una bella mattina mi metto per scherzo a parlare così ed eccovi a decine qui intorno con espressione compiaciuta e aria interessata.
Mi sta seguendo?
Infame. Deficente. Imbecille. Mezza sega.
Ah ecco, bentornato tra noi.
Insomma, capisce quel che dico? Questo turpiloquio d’ordinanza, questo eloquio da trivio che si è fatto lingua ufficiale non è che la prova ennesima (e superflua) dell’inguaribile conformismo che vi attanaglia il cuore, come un incontrastato sovrano. E’ conservatore, comprende? E’ un vecchio codino travestito. Reazionario, retrogrado, convenzionale, banale. E vile, per giunta, perché batte le strade più semplici, sfrutta una posizione di rendita, riconduce al notum, punta ad un effetto scontato. E’ l’apologia della scorciatoia, l’elegia del canovaccio.
Ma dove guarda adesso? Guardi qua, piuttosto.
Cretino. Buffone. Pirla.
Ecco, da bravo.
Eppure, lo sa che le dico? Che io mi piegherei anche ad adottarlo, questo vestito alla moda, questo involucro vuoto. Me la mangerei anche ‘sta merda (senti che padronanza) se servisse ad esser meglio compreso. Se attraverso questo codice potessi far passare qualcosa che ridia la voglia di cercarsi gli occhi a qualcuno che ha smarrito i propri. E invece ho scoperto da tempo che non c’è modo di nascondere guerrieri all’interno di questo cavallo di legno. Che alla fine potrebbe anche esser vuoto il pacchetto, tanto nessuno se ne accorgerebbe mai.
Perché è la carta, in realtà, l’unica cosa che conta ed è solo a quella che pomposamente diamo il nome di “comunicazione”.
Tutto è packaging, come vede alla fine, caro lei.
Carta rossa e carta verde a Natale e ai compleanni. E nessuno disposto ad affrontare la piccola morte di scoprire il contenuto del pacco.
E allora mi guardi negli occhi, signor “audience”, signor “share”, signor “lettore medio”. Non si perda dietro al culo della prima che passa. Si conceda a me, ancora un momento.
Cazzone. Bastardo. Figlio di puttana.
Se è destino che noi si scodinzoli sempre e solo intorno a quello che ci aspettiamo di sentire, attratti come cani (immancabilmente) dal piscio di cane, se è vero che siamo (inguaribilmente) incapaci di cercare nuovi belli, nuovi dolci, nuove meraviglie, allora io rivendico oggi il mio diritto a cambiare naso.
E qui, oggi, di fronte a voi, o uditori attirati a me con l’inganno, giuro.
Di non cercare mai in futuro la vostra complicità, di cui non sento il bisogno, usando il linguaggio che potrebbe attirarvi o compiacervi. Maledetti i vostri apericena, i vostri brunch, maledetti voi che state sul pezzo.
E da lettore, di distogliere il mio sguardo per sempre, nei secoli dei secoli, da qualsiasi romanzo, poesia o prosa che contenga la parola cazzo nelle prime tre righe e sia stato scritto dopo il 17 gennaio 2001, giorno della morte di Gregory Corso, ultimo autorizzato dalla sua storia, dalla sua generazione e dal morente dio della poesia, all’uso di un ragionevole e rivoluzionario turpiloquio.
E di continuare a cercare negli infiniti lemmi e nei significanti di questa lingua mia amatissima le piccole navi di carta a cui affidare i bagliori che a volte m’illudo di vedere, per quel che durerà ancora, e di non vergognarmi mai della sua musica e della sua grammatica.
E di non rinnegare il Congiuntivo ne ora né mai, né alcun altro modo verbale, in nessun caso, nemmeno a costo della mia stessa vita (ché si può anche smontare un giocattolo complesso ma coi pezzi ottenuti bisogna pure esser capaci di costruirne un altro decente e la cosa, mi si creda, non è da tutti).
Né di ripudiare il mio Foscolo, il mio Tasso, il mio Proust (nella traduzione cara di Giovanni Raboni).
Ma vedo che non c’è più nessuno ad ascoltarmi.
Tanto meglio.
Ora corro a lavarmi la lingua col sapone, come si conviene dopo aver pronunciato tutte queste parolacce, e a tutti i distratti e incostanti uditori defilatisi nel frattempo in tutta fretta, rivolgo l’esortazione di recarsi senza indugio ad avere un rapporto sessuale di tipo anale in cui mettono a disposizione la materia principale. Accompagnando il mio consiglio con un gesto di incitamento a palmo di mano aperta, naturalmente, a mò di rafforzativo e al fine di conferire la giusta enfasi all’accoratissimo mio invito.

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