Ada Negri / Caffè letterario

Da Io

Chi ora io sono, è cosa vana il dire:
fragile donna che se stessa ascolta
vivere, con un’ansia avida e stolta
di saper ciò ch’è in fondo al suo soffrire.

D’antiche vite istinti e forze varie
si raggruppano in me, s’urtano a gara:
aspra t’incidi sulla bocca amara,
o ambigua lotta d’anime contrarie!…

Ho cent’anni, ho mille anni. La mia vera
faccia, il mio vero cuore io non li so.
Nè, stanca a morte, io mai conoscerò
l’ebbrezza di poter morire intera.

 

Un fratello

Ti fui compagna per le ignote strade
del mondo e all’ombra dei crocicchi, in una
vita lontana che fu mia, fu mia
come questa non già che s’attorciglia
al mio collo e al mio cor, segni imprimendo
di ferro e corda nelle nude carni.
Avevi, come adesso, una giacchetta
logora, un viso a lama di coltello,
una bocca di fame e di sarcasmo;
e andavi senza meta, e andavi senza
dolore, solo con la tua miseria,
e gran signore della libertà.
Lo so.—Per te non c’era e non c’è posto
nel mondo disegnato a quadratini
ben distinti, con cifre di classifica
ben chiare.—V’è qualcuno che ti crede
un barbaro—e ti esecra—ed ha paura
di te.—Non io, che son della tua razza.
Non mi conosci più?… Forse ti sembro
più bella adesso, flessuosa nella
sottil guaina di velluto fulvo
che mi fa somigliare a una pantera.
So pettinarmi a onde, con la grazia
delle dame che passano in carrozza;
e fingere il sorriso, anche nell’ore
dello strazio, e mentire una promessa,
e offrir la mano e il thè, soavemente,
a chi, se volga il dorso alla mia soglia,
fa la mia vita ed il mio nome a brani.
Ho braccialetti d’oro; ma mi pesano
ai polsi. Ho una collana di rubini,
ma non la metto, chè mi par la riga
vermiglia incisa dal capestro al collo
d’un «sospettato» del Novantatrè.
Sono rimasta zingara, nel fondo
del cuore.—Non si mente al proprio sangue.
E t’invidio…. Tu sei libero e forte:
non hai padre, nè madre, nè fratelli
che vivano di te, che al tuo destino
s’aggrappino: il tuo letto è nell’Asilo
Notturno: la tua casa è tutto il mondo.
Domani puoi senza rimorso ucciderti,
per compiere una tua vendetta oscura
contro la vita.—Amare anche tu puoi,
una donna o un’idea perdutamente
amare; e viver per l’amor tuo grande,
poi che intatto ti resta il tempo e il sogno.
Forte e libero tu fra tanti schiavi,
addio. Colei che passa è tua sorella;
ma la folla l’inghiotte—e ognun va solo
col mistero di sè, fino alla morte.

 

Il cieco

Un cieco è fermo sotto il mio balcone:
suona su un vecchio cembalo una vecchia
danza. M’entra nel cuor, che vi si specchia,
la grazia triste della sua canzone.

Ma perchè innalza i torbidi occhi fissi
fino a me?… Sono vuoti; e pur s’asconde
non so che fiamma in quelle orbite fonde,
non so che viva, intenta ombra d’abissi.

Mi guarda: vede.—Vede, sulla mia
fronte di marmo, il mio segreto strazio:
quel che m’uccide e di cui pur mi sazio,
quel che mi seguirà nell’agonia.

( da Dal Profondo, Milano, Treves 1910)

La sosta

M’appoggio a un tronco, scivolo a ginocchi,
confondo anima e corpo alle contorte
radici.—E tu credevi d’esser forte,
povera donna!…—Or sosto un poco. Ho gli occhi

stanchi di sole: anche il cervello. Ho questi
densi effluvî nel sangue, come un tossico
inebriante ed omicida. Ho gli ossi
che mi dolgono, come in chi si desti

da lunga febbre. E il combattuto orrore
ch’io credetti d’aver pur ieri ucciso,
eccolo, è qui, m’abbranca il petto, il viso
mi schiaffeggia, mi sputa, ecco, sul cuore.

Dio che mi vedi, a questo m’hai condotta
tu, perch’io tocchi un segno eterno. E lunga
ed aspra è l’erta ancor, fin che il raggiunga,
e già m’accascio come cosa rotta….

Fa almen ch’io non mi volga indietro, ch’io
non dubiti, non tremi, non mi penta
del già compiuto; e dentro me ti senta,
sola fiamma inesausta, ardere, o Dio.

 

Da Libertà

Io non fui d’altri e non sarò mai tua,
io son di me: pur m’è tremendo il giogo
del lento corpo: se il sol fosse un rogo,
dentro m’avventerei, per esser sua.

Fra gli uomini che odio e il Dio che agogno
sta la vita: ed ucciderla non posso:
ella, ella sola è il tramite che, rosso
di sangue, tutta mi congiunge al sogno.

(da Esilio, Milano, Treves, 1914 )

Ada Negri nasce a a Lodi il 3 febbraio 1870. La sua famiglia è di umile estrazione; solo con molti sacrifici, la madre riesce a farla studiare alla Scuola Normale Femminile di Lodi, dove consegue il diploma di maestra elementare. Parallelamente all’impegno scolastico, Ada si dedica all’attività letteraria, collaborando con la rivista Fanfulla di Lodi. Negli stessi anni pubblica la sua prima raccolta poetica Fatalità (1892) che la pone all’attenzione del mondo culturale dell’epoca. Seguono altre pubblicazioni fra sillogi poetiche, racconti e romanzi. Nella maggior parte delle sue opere, l’autrice dà voce alla questione sociale: per questo riceve l’appellativo di “poetessa del quarto stato”. Col tempo, la sua vena poetica diventa sempre più intimista e introspettiva. Nel 1926 è candidata al Nobel per la letteratura e nel 1940 diventa membro dell’Accademia d’Italia. Muore a Milano l’11 gennaio 1945. Tra le altre sue raccolte poetiche ricordiamo Tempeste (1895), Maternità (1904), Dal profondo (1910), Esilio (1914). Nella sua poesia, il verso viene denudato, scarnificato: la parola, diretta ed essenziale, lascia emergere tutta la potenza di un dolore che si fa di volta in volta passione, rabbia, disperazione, solitudine, abbandono. Per il crudo realismo e la forte carica espressiva, la poesia di Ada Negri è ancora oggi di grandissima attualità.

Donatella Pezzino

Immagine: dipinto di Franco Anastasi (Palermo, 1887 – Napoli, 1964)

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