Alessia D’Errigo
Nata a Tivoli il 17/11/1980
Ricercatrice in campo teatrale e cinematografico. Scrittrice, interprete e regista di varie opere teatrali. Dopo un percorso classico come attrice inizia una ricerca personale sull’atto scenico e sulla reale necessità del suo manifestarsi. Nel 2004 apre, insieme al suo compagno, l’artista e regista Antonio Bilo Canella, il “CineTeatro di Roma” (www.cineteatro.org) centro di ricerca formazione e produzione in campo teatrale e cinematografico. Proprio al CineTeatro inizia un lungo percorso sull’improvvisazione totale: la Performazione (http://www.performazione.com/ ) e porta avanti una ricerca personale
sull’Improvvisazione Poetica. Da questa ricerca sull’improvvisazione poetica – nel 2011 – Alessia D’Errigo apre il progetto IMPROMPTU THEATRE (http://impromptutheatre.jimdo.com/ ), l’intento è quello di voler fondere varie arti (musica, poesia, danza, pittura e teatro) in uno scenario d’improvvisazione totale. Progetto sancito dall’omonimo spettacolo “Impromptu” con il pittore-performer Orodè Deoro, e da altre due performance “Variazioni Belliche (LamentAzione)” e “Per i tuoi occhi bianchissimi”. Nel 2011 pubblica la sua prima silloge poetica ‘Carne d’aquiloni’ con l’editrice Zona nella collana ‘Contemporanea’. I suoi testi sono presenti in numerosi blog, riviste (web e cartacee) e in alcune antologie. Cura la rubrica di poesia al femminile ‘Rediviva Donna (classica e contemporanea)’ sulla webfanzine Versante Ripido
studio 06-8175275
[email protected]
≈≈≈
Tu notte
mandami avanti
ricreami nuda e bianca
come nessuno osò
nudo e bianco
occhio posato a cruna e filo d’oro
occhio d’oro che la cruna imbucò
sulla tua pupilla, luna.
Creami ancora il naso
naso contro naso
ad estorcere un po’ di bene
di pelle e forca il bene
la forca del male, un bene
se tu ne vuoi di bene
quel bene che chiamo.
E tu invoca
in questa notte
le barbe di tutte gli dei
a colmarmi e ricordarmi
che t’amo
che t’amo ancora
invecchiata di vita e credo,
un lastrico d’oro ha aperto il mare
sbavature
di salsedine sulla lingua
astro d’oro
il mare, ripeto.
E tu chiami la virtù, la virtù ti chiama
supina sui suoi cenci
ove
il mare è un bene a cui nessuno s’accompagna
mentre la riva del corpo ne sente la fermezza,
il punto estremo ritrovato
dentro una conchiglia, eco.
Ma sempre di notte viene
quel corpo bianco a imprigionare ombre
incastrandole nella pece degli occhi,
sempre viene a dargli fiato sul collo
quel cigno nero fatto riflesso e specchio
immobile-atemporale d’un sogno
quel corpo bianco
(mio ricordo)
ch’è un bene e un sale
da bere:
per le mie labbra, un soffio
per le tue labbra, la schiuma
per me e per te quel che rimane sulla sabbia, sabbia.
E viene lo stridore dei gabbiani a farci vivi
viene da lontano su un cielo fermo
la coda d’un gabbiano, la tua mano sul fianco
la coda d’un gabbiano, la tua pelle in fiore –
coda divelta di un bacio.
Oh, notte mia
lascia al corpo la stringa dell’abbraccio
non un refuso, non uno schianto,
ma semplice cosa che si fa corpo
e poi, volo.
≈≈≈
Io mi distendevo al mare
e il cuore era tutto l’oceano di cui dispone un corpo;
lombi di spuma.
La conchiglia ha la sua deriva
l’oggetto bello
corno di cavallo e vento
ha affiancato la nostra carne a Dio
poiché potesse dissotterrarsi dalla terra
la sua croce
l’albume del cuore, steso
sedimentato sulle bende.
Chi avrà tra noi la parsimonia degli angeli?
a chi verrà negato il lembo del sangue?
quale precipizio lascerà il posto a Dio?
Ma Egli, no
egli sedeva sull’acqua come spinto dai flutti
verso isole insormontabili
nessuna distrazione v’era a scuoterlo
elargiva il suo portato
sussurrando all’orecchio la strada.
L’avea udito un bambino
il bisbiglio
l’almanacco del silenzio
riportando a noi la faccia
di quel Cristo
che non era di pianto
ma di Creatura
senza peccato e peso.
Per questo mi misi a nuotare verso di lui
navigando l’aria sino alla sua aura d’oro e cobalto,
fatto di spuma s’era,
intriso del contatto
aveva udito il canto.
(Chi non ha mai visto il mare
soffre di un grave problema di verginità)
≈≈≈
Sparsa s’era l’acqua
un precipizio colato
sparsa l’acqua s’era
nelle gole del mio pianto
pianto s’era, di gole
colato mio precipizio
(ignudo)
che di calle s’abbellì
(grembo)
di fiori e d’acqua
la gola s’era
che l’acqua e l’ ignudo
furono
che l’acqua fu
e l’ignudo pure.
E allor che amato si seppe
io che dissi al poi?
Molecola cara
da me venisti,
da me, che al di là
molecola fui
e nessuno disgiunse
riva-bocca
nessuno
il bacio tuo.
≈≈≈
Agave di un corpo, t’eri fatto,
com’io fatta di te, mi feci
e fu luna che abbandonò il cielo
quando la luce tenue, sporgendo dal vetro
s’adornò sulle tue caviglie
e il corpo si fece bello
e la bocca d’amaranto si leccò il giorno
mentre l’occhio – fatto per vedere grande –
sulla tua pelle analizzò il reale
per svegliarsi dal sogno.
(visione eterna)
≈≈≈
L’acqua ti arrivava rossa
come la bocca di un’enorme vagina.
L’inchiostro era mistura per le capre da terra
e per le rive, dove giaceva un pelo di pube,
t’affacciasti indomita al mondo
per colmarlo di foga e libido.
Oh, bocca che procreò figli
come si tinse il tuo affaccio?
Fatto bello che bella fu la sorte
al tuo orpello divino, pane e mistura,
pane e mistura si cinsero ai tuoi fianchi.
Chi potrà affacciarsi sotto la tua gonnella?
Vederti da vicino nell’occhio,
più di un occhio, più di un occhio t’abitò –
allungo di penitenze la voce cantava
al tuo inguine, suonando bianchissimi lombi, suonando.
Chi ti carezzò mani-amore-bocca-tutto-tutto-tutto, chi?
Non smise di parlare il silenzio
appeso al ventre, sospeso e rosso:
mistura di pane, mistura di pane, mistura di pane,
senti come canta?
≈≈≈
Io m’ero, come tu mi vuoi: un soffio
Io m’ero che tu volessi soffiar via
Io m’ero via, mentre soffiava il tu
ma non so se l’ascoltammo ancora
privo e nudo, imbastito dal caso
Io m’ero il caso imbastito dal tuo tu
Tu m’eri nudo e sodo tra le gambe
chi ci incontrò non disse niente
poiché il niente era il soffio privo del noi
un mulino a macerare l’aria: il tuo volessi
un mulino a macerare l’aria: il tuo caso
un mulino a macerare l’aria: il tuo sodo e nudo.
Abbi il coraggio ancora, abbine ancora,
oscuro e colmo di santità, abbine ancora
com’io feci della santità il giogo,
la prateria sterminata dei nostri averi:
piccoli possessi insoluti
piccole ali fenici, piccole chiocciole e
derive. Abbine cura.
Commento di Alba Gnazi
(Chi non ha mai visto il mare
soffre di un grave problema di verginità)
(da Io mi distendevo al mare)
Leggere come danzare. Come intingere le punte degli alluci dentro acque calde che si colorano di spume e geyser improvvisi; acque in movimento lento e inarrestabile che salgono e circondano le membra, e cambiando cambiano la pelle, mentre gli occhi tesi in alto s’innamorano del cielo – diventano cielo, un tutt’uno con la danza delle parole – e la danza non si spegne.
Come danzare, dicevo: perché danza e Musica e voce e ritmo sono il quid, l’essenza, il portavoce, l’Io Assoluto di queste poesie di Alessia d’Errigo – ma anche il contrappasso, la coscienza esterna, la riflessione bruciante, il moto curvilineo difforme del sentire.
Poesie con versi brevi allacciati stretti gli uni agli altri, o versi più estesi che sconfinano nei territori della prosa; forme lessicali che assaporano e offrono sapori originali, tramite cui i significati vengono tradotti e veicolati (ma anche smascherati, reinterpretati, vivificati) da significanti provenienti da tutti i Dove e gli Altrove che cifrano il poetare di Alessia, un poetare di ricerca e dialogo, di co-scienza in flusso costante (ne fece largo uso Joyce, a suo tempo), che interseca intuizioni inedite atte a dar corpo e suono alle epifanie dell’anima.
Una poesia feroce e dolcissima, come qui:
ricreami nuda e bianca
come nessuno osò
nudo e bianco
occhio posato a cruna e filo d’oro
occhio d’oro che la cruna imbucò
sulla tua pupilla, luna. (da Madrigale);
tinta di sensi e corpi esposti che allineano metafore e asperità che attendono di essere scorte e saggiate, come ogni evento ineluttabile:
L’acqua ti arrivava rossa
come la bocca di un’enorme vagina.
L’inchiostro era mistura per le capre da terra
e per le rive, dove giaceva un pelo di pube,
t’affacciasti indomita al mondo
per colmarlo di foga e libido. (da L’acqua ti arrivava rossa)
Versi per orchestre d’elementi, chiamati a testimoni dei rivolgimenti che imbastiscono e scuciono i tessuti interiori della Poeta, che nutrono occhi e intenti, e s’incarnano, e diventano Amore:
e fu luna che abbandonò il cielo
quando la luce tenue, sporgendo dal vetro
s’adornò sulle tue caviglie
e il corpo si fece bello
e la bocca d’amaranto si leccò il giorno (da Agave di un corpo)
Versi per voce sola, come un canto solitario che la Poeta sussurra a se stessa, colma delle rivelazioni che la natura le offre, grata e sofferente per la bellezza e il dolore che della bellezza porta il peso – perché la bellezza sostiene gravami che occhio disattento non coglie, e allora canta per farsi coraggio, e chiede asilo alle anime in ascolto, a una nuvola all’orizzonte, a una conchiglia, a un gabbiano che stride, a un bambino che ode ‘’l’almanacco del silenzio’’ di Cristo (umana eterea forma di bellezza priva di peso).
Versi che vibrano di reiterazioni, di seduzioni d’ anafore, di eleganti chiasmi; versi puri, privi di un lirismo fine a se stesso, incidenti e coincidenti con tutte le a-logicità dell’essere/sentirsi Donna e Natura, Caso e Scelta, Interprete e Osservatore, Rarefazione e Fisicità; dell’essere distanti e prossimi ai fulcri su cui tutto ruota – spesso in sensi inversi, ma il movimento porta comunque e sempre visione e ritmo – e muta, su cui il Farsi e il Disfarsi sono l’atto primigenio e ultimo attraverso cui si compie la dialettica dell’universo. Distruzione vs Creazione: del sé in rapporto con lo spazio circostante, del sé in rapporto con sé e con l’Altro/gli Altri, in modo asincrono o in totale armonia, purché vi sia modo e tempo per cercare e cercarsi, purché il rispetto sia àncora e chiave di volta, purché mai ci si fermi – ché di apparenze e difficoltà è cosparso il sentiero, e la Poeta sa, e il suo canto si rafforza:
Abbi il coraggio ancora, abbine ancora,
oscuro e colmo di santità, abbine ancora
com’io feci della santità il giogo,
la prateria sterminata dei nostri averi:
piccoli possessi insoluti
piccole ali fenici, piccole chiocciole e
derive. Abbine cura.
[Di cose così grandi, di cose così piccole è fatto il mondo: e noi non ne vediamo che un angolo distratto, con la coda dell’occhio, mentre ci disperiamo per i voli delle rondini, o annodiamo i fili rotti di vecchi aquiloni].