Amalia Guglielminetti / Caffè letterario

La solitudine

Siamo soli nel mondo: ciascun vive in mezzo a un deserto.
Nulla per noi è certo fuorchè questo vuoto profondo.

E i contigüi casi degli uomini, e i sogni e le cose
son come ombre fumose vanenti su torbidi occasi.

Talvolta amor mezzano avvicina due solitari,
li illude un’ora e ignari e ignoti li avventa lontano.

Ciascun ch’ami il suo orgoglio la sua verità o il suo errore
è un mesto viaggiatore superstite sopra uno scoglio.

S’illude egli alle prime carezze dell’onde e del vento,
ma tosto lo sgomento dello spazio enorme l’opprime.

Né v’ha cosa più triste della non colmabil lacuna,
dell’ombra che s’aduna fosca fra chi esiste e chi esiste.
*

Una voce

Una voce nell’ombra ha qualche volta
la morbidezza calda d’una cosa
tangibile. Non s’ode e non s’ascolta,

ma sul cuor che l’accoglie quasi posa
le sue parole ad una ad una come,
quando langue, le sue foglie una rosa.

Se invoca piano, in ansia, un caro nome
par che vi tremi il mal represso ardore
d’un bacio non osato fra le chiome.

E di soverchia intensità essa muore
soffocata ed il pianto che l’assale
sembra il principio dolce dell’amore

ed è l’inizio acerbo del suo male.
*

Una sera

Lascio cader la sera novella sul vecchio mio male,
un’altra sera eguale e cento passate, o più nera.

Trascorsi arido il giorno su un cupo dolore ravvolta,
chiamando anche una volta un amore senza ritorno.

Ravvolta su me stessa e come una serpe contorta,
fredda come una morta su l’anima mia genuflessa.

E un’altra notte scende dai cieli, velata di nero,
e intorno al mio pensiero ravvolge le fosche sue bende.

Intorno al taciturno mio cuor la sua tenebra addensa,
fascia l’anima intensa del grave stupore notturno.

Così il duol che mi morde la notte fraterna in me calma.
Preme la molle palma sui miei occhi, misericorde.
*

Un dubbio

Son io giovane ancora, anima mia?
I miei capelli ancor mi son mantiglia
nera le notti di malinconia?

Talor per questa strana meraviglia,
notizia di me stessa a me domando
con un solco di dubbio fra le ciglia.

O giovinezza, io ho già scordato quando
venisti a maturare in frutto molle
il fior d’infanzia dal profumo blando.

Tutta nuova da sue bianche corolle
l’adolescente emerse allor, stupita.
Or, con un riso leggermente folle,

riconta che anno fu, su le sue dita.
*

Asprezze

Aspra son io come quel vento vivo
di marzo, il quale par crudo di geli
ma discioglie la neve su pel clivo.

Vento di marzo che agita gli steli
pigri, scopre vïole in mezzo all’erba,
scompiglia erranti nuvole pei cieli.

Asprigna io sono e rido un poco acerba.
Mordere più che accarezzar mi piace
ed apparir più che non sia superba.

Come il vento di marzo io non do pace.
Godo sferzare ogni anima sopita,
e trarne l’ire a un impeto vivace

per sentirla vibrar fra le mie dita.
*

L’altro volto

Oltre lo schermo d’una lastra tersa
m’interroga, mi scruta l’altro volto,
e muta io indago lo stupor raccolto
ch’esso dagli occhi troppo grandi versa.

Da tempo, sempre egual, sempre diversa,
o taciturna, io ti conosco, io ascolto
il tuo pensiero vigile, da molto
tempo il mio sguardo con il tuo conversa.

Tu, chiusa nello specchio, mi somigli,
sei forse un’altra me, ma sempre come
una straniera, tu mi meravigli.

Nuova mi resti e spesso tu, con tale
pallor mi fissi in fosca ombra di chiome,
ch’io ti chiedo: – Chi sei? qual è il tuo male?
*

Da “La guarigione”

Forse t’attesi molto. Cadeva la sera, un giardino
m’appariva vicino, oltre un vetro, in ombra, raccolto.

Ed un’acuta brama d’errare in quell’ombra, o più forse
in quella pace, morse il mio petto come una lama.

Ah! fuggire lontano da quella tua casa nemica,
dov’ero una mendica che tende tremando la mano.

E correre le vie dal vespro estüoso bruciate,
sul mio passaggio ondate sollevare di bramosie.

Ma restavo confitta a quella mia inerte tortura
e nella carne oscura si doleva l’anima afflitta.

Tacque, s’aderse. Un passo, suonava per stanze remote.
N’ebbi le vene vuote, il cuore più greve d’un sasso.

*

(da I serpenti di Medusa, Mantova, Artiglio Stampa, 2004)

Amalia Guglielminetti nasce a Torino nel 1881. Appartenente alla piccola borghesia industriale, riceve un’educazione rigidamente cattolica per volere del nonno, uomo dai costumi molto austeri e acceso clericale.

La sua prima collaborazione letteraria risale al 1901, quando inizia a pubblicare le sue poesie sul supplemento domenicale della “Gazzetta del popolo”. Sono versi ancora immaturi, nei quali Amalia non ha ancora sviluppato moduli espressivi propri. La svolta avviene nel 1907, anno di pubblicazione de “Le vergini folli”: la silloge, infatti, viene apprezzata da pubblico e critica per innovazione, spontaneità e qualità. Tuttavia, Guido Gozzano (con cui la poetessa avrà un’ intensa relazione amorosa) ne nota la dipendenza dai moduli dannunziani.

Con gli anni, la scrittura di Amalia si svincola dalle influenze dannunziane, acquistando in forza e profondità; i versi si fanno più concisi, lo stile più essenziale, l’uso degli aggettivi sempre più limitato. Negli anni Trenta, Amalia è per qualche tempo a Roma, dove tenta la via del giornalismo ma senza il successo sperato.

Nel 1937 torna nella sua città natale, dove vive in solitudine gli ultimi anni della sua vita. Nel 1941, durante un bombardamento, cade dalle scale procurandosi una brutta ferita che causa la sua morte per setticemia. E’ sepolta al Cimitero Monumentale di Torino.

Amalia Guglieminetti lascia diverse opere degne di interesse fra poesie, fiabe, romanzi, scambi epistolari e lavori teatrali. Tra gli scritti più significativi si segnalano il romanzo Gli occhi cerchiati d’azzurro (1920) e le raccolte poetiche Le vergini folli (1907), Le seduzioni (1909) e I serpenti di Medusa (1934).

La sua poesia è tutta soffusa di malinconia: ogni cosa, anche la più bella, viene vista nella sua caducità estrema. Vicina alla sensibilità e ai canoni crepuscolari, Amalia guarda sempre oltre la superficie, per cogliere tutto il male che si cela dietro gli incanti e le dolcezze.

Donatella Pezzino

(Immagine: “Nudo blu” di Pablo Picasso, 1902)

 

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