Breve excursus di storia e identità napoletana (Giovanni Perri)

non si capisce mai interamente Napoli..Napoli è un pozzo senza fondo (G. Piovene)

 

 

Ciascuno ha in sorte, tra innumerevoli bellezze e nefandezze della vita, il miracolo sovente inavvertito d’appartenere a un luogo. Di riconoscersi in esso come prodotto filiale e sodale con la terra, attrito iniziale.
Talora vi si brucia d’amore, cadendoci a pezzi dentro come volendo fondersi a granelli in un ardore segreto. Spesso vi si cade con indelebile noia, come in un sonno distratto, un cedimento tacito, un divenire naturale simile al cadere della luce o del buio. Sempre vi si consumano le pene e le gioie, gli infiniti malanni, le inesplicabili ingiustizie, le simpatie, gli odi, le malattie, gli amori. In ogni luogo avuto in sorte, (una città, un paese, una metropoli, un pezzo di campagna) l’uomo, avendone o meno contezza, si scrive addosso una radice: si fonde in un abbraccio germinale, diventa seme, albergo, lembo e centro del mondo, diventa identità.
Sia anche tracciandovi perfette idiosincrasie (regole complesse e obbligate del vivere, codici occulti) egli vorticherà nei suoi infiniti echi. Nei suoni, negli odori, nei gesti, nei colori: ne diverrà parte. Sarà egli stesso quei gesti, quegli odori, quei suoni, quei vocalizzi persino umorali, genetici.
Io, per mia sorte, per mia fortuna, sono nato e sono napoletano: miscuglio contaminato di contraddizioni perfette, anima intrigante. Non so bene quale infuso mi scorra nel sangue, quale unguento santifico prevalga sui miei sensi, quale odore, colore, se l’oro del tufo, il salmastro del mare, il nero del caffè o l’ordine imperfetto e geometrico dei vicoli scuri in cui scivolano timorosi i tentacoli delle mie contraddizioni. So solo che l’odio che nutro per questa città viene fuori da un più grande amore. Da una vivacità emotiva che stilla dopo stilla emerge dai bassi, dagli antri scuri, dai palazzi laceri, dai rumori assordanti, dai volgari e istintuali abbandoni del dolore e della sofferenza, della gioia puramente sanguigna di un popolo che in buona parte definiamo incivile e riluttiamo per borghese buonsenso.
E’ il pregio abituale di chi vive poeticamente la propria esistenza scrutando all’ombra dei residui, negli anfratti, cercando la bellezza fuori dell’ordine e della misura. E’ il piacere quasi etico di vibrare di pienezza insieme al mondo e alle cose, di annegare in un afflato corale. Di perdersi in un suono, in una smorfia caricaturale, in un sogghigno malizioso: scendere piano nel ventre beffardo e scaltro di un venditore di fumo, nel sorriso arguto e pieno di miseria di un truffatore di orologi, guardare la gente scambiarsi negli occhi parole e abbracci e perdersi in capelli, unghie, gomiti, toccare le cose con la bocca, con le mani coi piedi, sudare insieme ai muri, ai selciati, ai tabernacoli votivi, ai manifesti di morte, alle finestre impressionate dal sole, ai balconi fioriti; infilarsi in un portone basso e trovarsi dentro un grandioso palazzo a doppie scale e giardini pensili, uscire e mischiarsi tra la gente indivisa, rubare a grappoli il rosso dei pomodori e mischiarlo al giallo dei limoni, al ramato tramonto che scivola sui marciapiedi, dove siedono donne rubizze che hanno sopra la testa panni spiegati di mille colori chew gocciolano, in un’indifferenza meravigliosa, mentre urlano pescivendoli per i loro pesci, fruttivendoli per i loro frutti stagionali, calzolai, rigattieri, mobilieri, giocatori di carte, mentre bambini corrono, uomini osservano, donne invocano.
Qualcuno un giorno si portò su questi lidi e vi restò. Imparò a leggere versi porosi nascosti nelle cavità della terra, si lavò il corpo con l’acqua del mare e si dipinse sulla faccia un sorriso.
Altri vennero e passarono secoli. Si diedero governi, si costruirono mura, chiese, palazzi, poi crebbero in numero, si sommarono, si moltiplicarono, giungendo dalle campagne, dalle montagne, da altre sponde lontane centinaia di chilometri dove non c’era lavoro, non c’era mangiare, perché lì, in città invece, il lavoro c’era, il pane era gratuito, l’approvvigionamento non mancava, le occasioni per ridere per piangere per gridare poterono presto diventare codici, modi di parlare, linguaggi cifrati.
Ancora in pieno quattrocento Napoli era la città ordinata che osserviamo nella “Tavola Strozzi” (ora a San Martino): una misura rinascimentale di perfetta geometria esistenziale; di equilibrio urbano e individuale, di serena quiete, di elegante architettura. Una città toscana, provenzale, angioina.
Poi fu la volta degli spagnoli e la città divenne un loro scopo, una loro precisa strategia: un sogno geopolitico che vide crescere in sproporzione la popolazione fino a farla, dopo Parigi, la città più popolosa d’Europa. Ammasso di uomini e case in un recinto stretto e sregolato, avvicendamento scriteriato di esistenze in un crescente dislivello tra ricchi (nobili, clero, con i loro araldici palazzi in stile, le loro chiese barocche) e poveri (lazzari infelici) sempre più numerosi (con i loro tugurii, i loro fondachi, i loro sguardi mendici). Un pauperismo quasi radicalmente ignorato che fece della capitale del regno Aragonese e Spagnolo un paradiso abitato da diavoli, un colosso dai piedi d’argilla, un delirio compresso, un grido sordo.
Vi prestarono ascolto gli spiriti illuminati che andavano agitandosi in un Europa in progressiva espansione, provando sgomento a vederla, la nostra città, crogiuolo di miserie e di bruttezze, nucleo confusionale in cui rovinavano tutti i sogni del Grand Tour, compresi quelli di Goethe.
Ora entrando a Napoli, passo dopo passo, pietra dopo pietra, leggiamo con segreto piacere questa mistura di storia delirante. Questo profondo ieri che ci entra negli occhi come una bella lacrima. Una scultura del Pathos.
Passeggiamo per i decumani con Croce; scendiamo giù negli ipogei greci dove sorsero chiese paleocristiane e ora galleggiano nient’altro che scure abitazioni di gente che non sa dove si trova. Depositi incoscienti di cultura.
La storia e la storia dell’arte e la storia sociale, politica, economica, e la storia delle tradizioni popolari, e la storia della musica e dei costumi e delle forme generali del vivere e del morire ci aiutano, entrando in questa città in punta di piedi, a capirne ogni minimo aspetto, ogni angolo acuto che attraversi strade e facce, e ogni suono sporco che diventi dolce e aleggi tra mille colori ed entri in ogni solco di vita, tra i palazzi, tra i sorrisi bucati, in ogni traccia di rumore rinato, ricreato.
Noi che viviamo qui, dobbiamo, tolta dal cuore ogni remora per una colpa che è solo e solo storica, ardere di consapevolezza. Stringerci al filo doppio della storia, ma guardare avanti, come l’erma bifronte, che crede ai mutamenti perché la vita è un divenire, ma freme di passato fin dentro al petto. Noi città di confine nello spazio e nel tempo. Borghesia europea, popolo, gente mediterranea.
(Giovanni Perri)

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