Carla De Angelis: “Mi fido del mare”, (Fara ed. 2017) nota di lettura di Stefania Di Lino (2018)

 

La bellezza è come una gemma preziosa, per la quale la migliore montatura è la più semplice.
(Francesco Bacone)

Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie.
(Giovanni Pascoli)

Nel mare, le lacrime si confondono con l’acqua salata, le assorbe in sé, mimetizzandole.

Perché a volte, in questa ‘valle di lacrime’, si piangono un ‘mare di lacrime’. Il mare, confondendo le acque, sa assorbire un segreto dolore. Ci si può fidare.

Di metafora in metafora, ogni poesia ci pone di fronte l’alfabeto di un dolore, che, come un aculeo, giace conficcato in qualche organo del corpo. Si tratta di una crocefissione interiore, che non è dato vedere a sguardi superficiali. E nessuna lingua, parola, o diagnosi, possono eviscerare descrivere, riferire, l’assurdità del male, l’incongruità straniante di quell’incidente di percorso legato al caso, – un freddo dato statistico, un percentile -, che determina uno o più destini e fa di noi, come disse Ungaretti in un suo famoso distico, foglie sugli alberi, non in primavera, ma in autunno.
E di fronte al male siamo presi da un peso insostenibile e da un senso intollerabile di ingiustizia, in cui la domanda più ricorrente è: perché?

Allora, laddove il pensiero logico-razionale è costretto ad arrendersi, per mancanza di risposte – non esiste un perché – ecco che avanza il poeta come utopia all’orizzonte.
Infatti solo alla parola poetica, per misteriosi percorsi, è dato, il compito di scandagliare il fondo scabroso del dolore, di grattarlo, scavarlo, di mettere sotto lente cocci e reperti, l’organico e l’inorganico, che l’essere in vita comporta.

Ai poeti veri, assidui frequentatori degli abissi umani, palombari delle voragini come delle vene aperte, a loro competono i ripetuti tentativi di scrivere per de-finire il dolore – pre- definirlo anche nel senso etimologico del termine, cioè stabilire un limite, un confine, un contenimento – attenzione: non un conforto! –, e anche, in questo caso, di soppesare in punta di penna l’entità di un dolore, misurare meticolosamente per prevenire quasi sillabicamente il punto di crisi e baricentrare l’equilibrio dei versi.

E, a proposito di misure ed equilibri , viene in mente per analogia, un corrispettivo spaziale della poesia di Carla: le sculture volanti di Alexander Calder, i mobiles che si librano leggeri nell’aria, ma solo dopo che l’artista, valutando attentamente le forze contrastanti, pressioni che se opposte e diseguali andrebbero a confliggere, riesce a trovarne l’esatto punto di equilibrio con cui dar vita autonoma alle sue opere aeriformi.
Analogo bilanciamento, e studiata leggerezza, si notano evidenti, anche per la brevità dei versi, nella poesia della De Angelis, come a paventare, – a torto o a ragione, in questa sede non è importante -, in una severa autodisciplina, il rischio dell’invadenza causata da una logorrea, da un flusso eccessivo di parole. Infatti così chiude una poesia: ‘… educare la volontà a/ contare la distanza tra il pensiero e la parola’ (pag.66).

Stasi nel buio. Poi
L’insostanziale azzurro
Versarsi di vette e distanze.
(Silvya Plath)

E allora, sin dalle prime pagine di questa raccolta di Carla De Angelis, anzi direi già dal primo testo introduttivo – si viene catturati dalla bellezza, liberati da ogni corazza sovrastrutturale, disarmati dalla semplicità e pervasi dalla convinzione di essere immersi nella trama di un tessuto testuale di ottima matrice.
C’è un filo d’argento che conduce il lettore tra i versi, un filo sottile ma resistente, capace di suturare crepe e rammendare lacerazioni, tanto è vero che il termine “filo” ricorre spesso, anche con dei richiami mentali: ‘Intreccio reti’ infatti, è la bella chiusa che troviamo nella breve poesia che segue (pag. 44):

Le mani sono sempre sul volante

Giro la clessidra ogni volta che

muta la luna

Intreccio reti

 

 

Che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico, e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo.
(Charles Bukowski)

Si tratta di una poesia raffinata, elegante, che si porge nuda e aggraziata nell’apparente semplicità della costruzione del verso, ma di quella semplicità, – come diceva Picasso a proposito della sua arte -, intesa come frutto di una macerazione interiore e di una lunga profonda elaborazione intellettuale ed emotiva. Insomma una complessa semplicità –  non è un ossimoro – che racchiude in sé un coagulo di sangue, una stilla di cui da sempre, il poeta è donatore (pag. 54):

Ruberò ancora un poco
d’aria al vento poi
cederò i miei colori a
chi è meno fortunato

Nel suo candore espressivo, la poesia di Carla De Angelis, si annuncia di alto lignaggio; solo in apparenza è mite e rassegnata al fato che ‘pone e dispone’ delle nostre vite. In realtà si tratta di una poesia forte e determinata, rodiata com’è dalla sofferenza vera, e per questo è una poesia autentica. La climax pur fluida, alterna momenti di fanciullesca meraviglia, a picchi e invocazioni verso l’’Alto, ‘Al Dio che ogni giorno chiamo in giudizio […]’ (pag.97), ‘[…]Padre nostro/Padre nostro/ Padre nostro […]’(pag.102).
E una confessione umana, importante e sincera: ‘Padre non so perdonare[…]’(pag.100).
Una preghiera a volte pudicamente sussurrata, il cui grido, spesso trattenuto e sotteso, si manifesta palese, in alcuni passaggi (pag.65):

Ad ogni giorno che muore
affido una parola che squilla
che strilla: perché qui adesso?

Parliamo di una scrittura di esperienza, quindi e in quanto tale, attraversata inevitabilmente da dubbi e incertezze. Ricorrente è infatti il punto interrogativo che troviamo in diversi testi presenti nel libro; interrogazioni usate anche come figure retoriche, che aprono ulteriori vastità interiori senza attendere risposte- non umane almeno. Domande profonde, che a volte sottendono metafore, ma che conducono sempre alla ricerca di un senso. Una poesia che dopo le brevi calibrate righe di introduzione – (tutto il volume, come dicevo, si presenta con una sua attenta calibrata organicità espressiva) – si apre con il primo testo che interroga e denuncia, da subito, l’elaborazione di un lutto forse mai finito, di una perdita talmente grave di cui si incolpa addirittura una luna malvagia e tanto invidiosa della bellezza trovata in una sola creatura, al punto di farle del male.

Gli accidenti, cercare di cambiarli è impossibile. L’accidentale rivela l’uomo.
(Pablo Picasso)

La luna nera, nella lettura dei tarocchi simboleggia una mancanza, una perdita sofferta. Si denuncia un ratto, – nel senso di rapimento -, la sottrazione di un bene prezioso e insostituibile al punto che la nostra poetessa si chiede, nell’ultimo verso di questa toccante poesia, se il bene prezioso che qualcuno o qualcosa ha portato via ‘basterà la vita per ritrovarlo?’ (pag.13).

E inoltre (pag. 98):

Questo dolore così intimo

così grande che non lo sento

Ci vorrebbe il sorriso di una zingara
che mentre legge la mano promette

Ci sarà un’alba dove i mali fuggiranno
come farfalle a un sole troppo caldo

Ci sarà ci sarà

Nel panorama internazionale, per comparazione, sovviene la poesia interrogante di Juan Gelman (1930-2014), grande poeta argentino, la cui biografia personale è pervasa da lutti e tragiche sparizioni filiali subite sotto il regime dittatoriale del generale Videla. Gelman, poeta dell’esilio e del dolore, affermava: ‘Scrivere poesia è interrogarsi sulla realtà, senza timori’.

E di versi interroganti nella raccolta della De Angelis se ne incontrano. Sono versi contadini, che sanno di terra e di erba, aerei eppure terrestri, che si rivolgono al cielo quanto alla terra e alla sua cura. Ne cito solo alcuni:

non mi sottraggo al dubbio/ la differenza è nel seme o nella terra? (pag. 16)

Uccelli che fate? Mangiate il seme? (pag.17)

Come può riposare il corpo/devastato dalle cose del mondo? (pag.21)

Posso evitare le faville?/Ognuna mi rivolge uno sguardo diverso/ ognuna pretende di essere tutta. (pag,40)

Tutto cambia lo sguardo si ferma su una frase:/Perché ha detto che i ciechi vedranno?(pag.57)

La poetessa Carla interroga con i suoi versi, senza avere la pretesa di dare risposte esaurienti. Tutt’al più troviamo un tentativo di ridimensionamento, una sdrammatizzazione della propria sofferenza – e, si badi bene, mai di quella altrui di cui invece si fa carico (pag.58):

Come ho fatto a far cadere gocce
senza soffrire?
Erano solo acqua
le lacrime son altro

e interrogandosi, la poetessa si sottrae a una fin troppo facile retorica del caso; sfugge alla banalizzazione del dolore, sempre e comunque con la forza asciutta della sua parola, dribblando agilmente la fin troppo facile retorica degli stereotipi, indagando in quelle schegge impazzite, sofferte e sofferenti, intrise di umanità che, vivendo, ci si ritrova tra le mani. Scintille d’amore che riescono a conferire al dolore la sua dimensione universale.

Perché il dolore di un poeta è sacro, in quanto è il dolore del mondo.

In tal senso i versi poetici di Carla De Angelis, prescindono, e vanificano di gran lunga, qualsiasi etichettatura di religiosità comunemente intesa, per attestarsi nella sfera del Sacro, – a tutto quello, cioè, che attiene al trascendente nell’immanente. Anzi quest’ultima dimensione, l’immanenza appunto, sembra essere ‘condicio sine qua non’, per quella propulsione verso l’Alto, ovvero verso il Padre, tanto spesso invocato e interrogato mediante la manifestazione dell’immanente. Paradossalmente, per Carla, potremmo parlare di una dimensione pre-religiosa, prima cioè dell’invenzione delle religioni, poiché l’origine da cui i suoi versi traggono forza espressiva, fondendo il Sacro e il Profano, si trovano nella medesima terra, in cui Spirito e Materia sono fuse nel medesimo Corpo e qui si fanno Logos.

Una poesia dunque, che a furberie lessicali e a ornati bizantineggianti, specchietti per
sprovvedute allodole, oppone la potenza della sola parola poetica. Semplicemente.

Stefania Di Lino, 11 ottobre 2018

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2 Comments

Grazie a te , cara Carla, per avermi dato l’opportunità di ‘entrare’ nella tua poesia.

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