CARTINE

Sulla mappa che mi avevano dato in albergo non era segnato in nessun modo il punto esatto in cui la mia strada sarebbe sbucata nella grande piazza del mercato, quello dove t’avrei incontrata per la prima volta.
In un mattino che iniziava a farsi infuocato avevo lasciato che la corrente variopinta di passanti mi trascinasse via, non appena messo piede fuori dalla porta, e mi portasse a perdermi in quel labirinto di vicoli impiastricciato di colori di stoffe, di sputi, di spezie, di chincaglierie.
Devo dire che mi ero portato piuttosto bene, nonostante tutto. Avevo affrontato tutti gli ostacoli, sirene e lotofagi, avevo resistito stoicamente ai richiami dei venditori e disinnescato con un sorriso tutte le loro insistenze, finché il fiume che mi portava non era dilagato nella piazza assolata per sperdersi verso i suoi quattro angoli.
I venditori di arance e bibite lanciavano le loro grida, gli incantatori di serpenti intontivano una coppia di cobra con mosse ad arte e suoni di flauti, i turisti avanzavano come tonni verso le reti con la loro tipica livrea migratoria fatta di bermuda e pelli rosate e obiettivi giapponesi.
Tutto mi aspettavo, mentre calpestavo la mia ombra dritta spietata nel mezzogiorno, fuorché di trovarti lì.
Avevi un sapore improvviso e deciso, come acido in bocca che fa salivare. Mi ricordavi, sebbene da qualche tempo fingessi d’averlo scordato, che solo io, in quel momento e sempre, vedevo quel che stavo vedendo. Che tutti guardavamo tutto e ognuno vedeva una cosa diversa. Che avremmo potuto parlarne tutti insieme per ore, semplificare, ridurre, fingere fino a sfinirci per convincerci alla fine d’aver visto le stesse cose, ma sarebbe rimasta sempre e solo una menzogna, quella comunanza.
Lì, dove non sapevo di trovarti, t’avevo incontrata come un dolore, unicità della mia visione.
Abbandonai sanguinante quella conca di voci e mi rifugiai nella frescura sussurrata di un museo. Maioliche e sale, peripatetici in via crucis, espressioni di finto interesse, scatti di foto che nessuno avrebbe mai più guardato.
C’era un giovane seduto in un angolo, forse spagnolo, tutto chino a consultare una cartina e in piedi vicino a lui una ragazza, certamente la sua fidanzata, che gli sorrideva, gli parlava, si metteva in posa, gli girava intorno come una colomba per indurlo ad alzare lo sguardo, perché si occupasse di lei, perché la vedesse. Era bella e desiderabile ed era chiaro che non c’era niente di niente che le premesse al mondo in quel momento se non l’attenzione del suo sacerdote delle cartine geografiche.
Ma al giovane di tutto questo pareva non importare nulla. Ostinatamente continuava a tenere giù il capo riccio ed era ancora in quella posizione quando abbandonai quel luogo, oltre mezz’ora dopo.
T’avevo trovata di nuovo come uno schiaffo, consapevolezza della solitudine. Nessuna cartina, certo non la mia e forse nemmeno quella del giovane, riportava tutti i punti della città di cui avevi disseminato la tua presenza.
E certo prima o poi avrebbe alzato lo sguardo il tuo cartografo distratto, ragazza forse spagnola, e magari ti avrebbe anche sorriso o baciata. Ti avrebbe stretta, forse ti avrebbe persino chiesto scusa. Ma nulla di nulla avrebbe mai più cancellato quel tempo di silenzio radio, di black-out, di sorrisi nel vuoto. Perché la solitudine è il colore del foglio e la vicinanza sono le linee tenui e sottili che ci tracciamo sopra col lapis. Questo mi avevi ricordato, nel fresco artefatto di quel museo, miss prezzemolo che sta dappertutto.
Se avessi portato il navigatore satellitare da casa, con la sua visione aerea, con la sua minuzia di falco, con la sua griglia infallibile di paralleli e meridiani, magari avrebbe potuto avvertirmi, con un piccolo segno fatto a forma di esse e una voce di donna, del momento in cui il corso del mio ritorno verso l’albergo avrebbe incrociato la barba sfatta di quel mendicante accartocciato sul suo cuscino di un decimetro quadro.
Perché è lì che ti ho vista ancora una volta.
Non nei suoi cenci, ma nello sguardo d’acqua che non era di quel luogo ma vedeva un altrove che come sempre sulla mia cartina non c’era. Un luogo dove le sue gambe scheletriche forse camminavano ancora e non disegnavano una curva di cartapecora su un cuscino bisunto. Un luogo dove l’eco vociante di noi tutti che gli passavamo davanti nemmeno arrivava.
Giunsi in albergo e restituii in malo modo la cartina a chi me l’aveva fornita.
Fui costretto a farlo perché proprio non funzionava, era chiaro, e con quella, che non segnava le cose importanti, per la città davvero non si poteva girare.

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