Sopravvivere
lacerazione del giudizio,
un morire piano
nel livello più basso del clamore.
È l’inevitabile supplizio
con sovrimpresso uno scadenzario,
dove l’orrore origlia
nella memoria a lungo termine.
Un pianoforte di note dissonanti
suona il rintocco della staticità,
si dissolve l’io voglio nell’io sono
e la bozza del reflusso dell’essere
s’insinua nell’insenatura del malessere.
E poi scapperà a tastoni l’indignazione
che ci salva dalle responsabilità,
dita esposte alla tastiera
per comporre
vocaboli di candida bontà.
Liberi delle tariffe affisse
in ogni olocausto degli occhi,
perirà la disparità nell’aldilà.