Sul Culo Unto della Città (di Folco A. Lasdo)

Insomma si era trovato questo lavoretto facile facile. Una volta ogni quindici giorni andava a trovare quel tale di buona famiglia che s’era invaghito di lui. A certi ricchi piacciono i balordi. Li disprezzano ma ne sono attratti. Si invischiano nei bassifondi con le loro scarpette di vitello e timidamente allungano un dito per sfiorare vecchie cicatrici. E lui aveva tutto questo, occhi belli e qualche rapina alle spalle. IL tale si ungeva di profumo e poi oliava per bene il deretano, spalancandolo come l’urlo di una bocca sdentata. Lui se lo faceva venir duro pensando a qualche sua ex, e ai bei tempi, quando scopare in macchina era più divertente che scarabocchiare con un ago storie sulle braccia. Così quelle due, trecento euro e qualche sniffata alla fine della nottata erano assicurate.
Infilò il cazzo in quel buco e i coglioni suoi andarono a sbattere in quelli del tizio. Sembrò un applauso, un battito di mani, carne su carne. Fletté leggermente le ginocchia e ci diede dentro di addominali, contando mentalmente i colpi come se stesse facendo delle ripetizioni in palestra.
Quel figlio di puttana era una macchina da guerra a prenderlo nel didietro. Ti faceva crepitare i polmoni e alla fine della danza la cappella sembrava la testa di un cerino bruciato. Ma insomma, sempre meglio che rovistare nei bidoni dei farmaci scaduti per spacciare ai mocciosi ubriachi, pasticche di contramal e roipnol.
Osservò lo specchio sopra la testiera del letto. Guardò la sua immagine riflessa. Al tizio piaceva farlo sempre con la luce accesa, perché vedere le vergogne nei dettagli è come pisciare sulla testa di Dio, diceva.
In quello specchio c’erano due uomini nudi. Uno dava e l’altro prendeva. Uno pagava e l’altro incassava. Era il girotondo della vita, senza tanti fronzoli del cazzo.
E mentre a fuoco lento arrostiva il tizio infilzato sullo spiedo della sua terga, pensò senza alcun motivo al suo vecchio. A suo padre.
A suo padre che si era rotto la schiena a sollevar ferrame e bucherellato la faccia con la mola a disco, per farlo studiare.
Cristo, avrebbe voluto vederlo Dottore. Lui si era iscritto a psicologia e in due anni fece un esame. Il resto del tempo lo trascorse a fumare spinelli e scolare bottiglie da un appartamento all’altro del centro. C’erano le ragazze che la davano via per pagarsi l’affitto. Chiedevano il minimo sindacale ed avevano enormi e morbidi seni da succhiare fino a consumarsi il sangue alle labbra. E poi gente interessante che sapeva raccontare coglionate con un certo stile.
Erano tutti inutili ma simpatici, per farla breve.
Fu un periodo di bella vita e come tale, trascorse in fretta.
Il vecchio morì di cancro al pancreas e lui vendette tutti i libri. Si comprò una busta di roba e si fece il segno della croce. Padre, figlio, spirito santo e adesso trovati un mestiere o sei fottuto.
Ne fece a decine di lavori. Timbrare il cartellino ogni mattina era come chiudersi la cerniera fra le palle, sorridere e dire grazie.
-Caro papà se mi vedessi adesso, un luminare son diventato. Curo le voglie dei finocchi a spintoni di nerchia-.
Gli venne perfino da ridere.
-Guardami: le carte, il vino e la malasorte mi hanno reso un bruto, e il mio saldo dei debiti se ne sta sopra quel tavolo di cristallo, fra mastercard gold e pulviscolo di cocaina-.
Se il vecchio l’avesse visto sarebbe guarito all’istante da quel cancro per crepare un minuto dopo con una fucilata al cuore.
E rise, rise come si ride quando il cervello ti esce dalla testa e slitta in fondo alla strada, fra le ginocchia sporche di un barbone demente.
Rise perché o ridi o muori. Perché la vita è merda e se non la puoi mangiare almeno puoi pestarla e portartela in giro.
Rise e prese per il culo il mondo, a quota trecento colpi su quella schiena pallida e molle cosparsa di foruncoli e profumo da novanta euro la boccetta, e alla fine, con uno sputo e una bestemmia, sborrò.
Come un rigagnolo biancastro, come una colata d’alba, sul culo unto della città.

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