Io, come macchina mi guardo bene
dal dire carne e da anticipare
sono come tu sei avido d’essere e io,
essere senza nulla rivendicare;
poiché in me è immanente ciò
che fu carpito dagli io altri.
Benedette quelle luci di pupille
che lallano ludici territori. Essere
è produrre in fonetica esultanze di vocalizzi
non esiste morale che non sia
regressa nell’inspirare la polpa
diafana del tempo, voce
di vulgata marinara che altre terre
abisserai nel mezzo della ragione
e ritroverai la mia pelle per via
con lucori postpluviali sacramentando
la vacuità della narrazione senza
resa alle dissociazioni epocali,
e il numero smembrato
dagli angeli pragmatici apre
per così dire al suono speranzoso
del tuo sesso a fagotto.
Mi schermirei pensando lemmi contrari
a questo tuo grande corpo
che inaugurò fontane d’agave
frescando il cuore e gli avambracci
dopo che l’ultima preda fu
bagnata a discrezione. Compagna
ci fu la rena ancestrale
nell’assistere fugaci derive
all’incendio di colline perlacee,
e nelle euristiche cadute delle
ultime faville sulle piccole borgate
che come capolinea agostani si ritrovano
nei nugoli di amanti concessisi
ai velluti dei dolci epicentri