I dieci canti obbediscono al richiamo del sangue e della terra, appaiono continuamente tesi verso un’aldilà senza nome: l’asse di Mattia Tarantino è sempre verticale. La natura di questi versi è tellurica: la parola sembra farsi spazio tra le viscere e scandagliare il ventre (“rivelami il segreto che ci oltraggia / sprofondando la parabola nel ventre“). Nel leggere la poesia di Tarantino non si può non avvertire una necessità di ricostruzione (e costruzione): l’origine e il destino.
“Qualche verbo spaiato rivela
la mia infanzia devota al vagito
Eppure sguazza ancora
la salvezza nella voce“.
“Riscossa” e “argento” sono le parole che intitolano questa sezione e rappresentano il sunto massimo in cui si condensa la voce del poeta. L’urgenza del verso si fa squarcio di luce: luce fredda, luce di luna e oscura grazia di Selene. La ricerca del primigenio appare assoluta, implorata eppure costantemente minacciata dalla possibilità di un sovvertimento totale (“Uno stormo viene ad annunciare / la catastrofe, la sorte della terra“) e a tratti volontà di un rovescio fatale (“E tu sovvertimi; rigira la luna / al nostro desco basso in cui versiamo / il diluvio brindando“). L’impeto di questa poesia in alcuni momenti sembra attenuarsi e sostare nella dolcezza dell’infanzia, di una lingua lontana eppure familiare (il dialetto calabro), il ritorno di un motivetto arcaico che inebria e riposa:
“Mia madre sanguinava
le maree, cuciva
l’acqua alle mie vene e poi cantava
di una rondine, di un verso e dell’amore“.
Rondine è una parola-chiave: qui il poeta fa riferimento a “Riturnella”, un’antica ninna nanna (che poi fu sua) e che Bennato recuperò e mise in musica. “Riturnella” in calabro vuol dire rondine, ma è come i nomi plurali greci e latini di terza declinazione: alcuni terminano in -a. Allora non si tratta solo di una rondine, ma dello schema compositivo: ogni verso si ripete, è tutto un enorme ritornello.
Tarantino è un poeta concentrico. Il canto diventa nenia: ripete, cede al mantra e all’ossessione (l’assillo di rosselliana memoria). Le parole “luce”, “angelo”, “sillaba”, “terra”, se si considera anche la prima raccolta dell’autore (Tra l’angelo e la sillaba, Terra d’Ulivi, 2017), possono essere considerate le sue parole-mana. Questo “eterno ritorno” in cui si staglia la poesia di Tarantino fa pensare alla riflessione di un grande poeta come Milo De Angelis, che in un’intervista curata da Mariasilvia Trovarelli afferma: “Abbiamo poche parole dentro di noi, sempre quelle, da sempre.”
Giorgia Esposito
A L. Crastolla, voce della luna e del basilico
I
C’è una crepa nella luce del Sud,
un colore che crolla e bestemmia
la croce. Verrà un santo
dal nome spezzato, dalle
ossa di grano a bruciare le steppe.
E tu sovvertimi; rigira la luna
al nostro desco basso in cui versiamo
il diluvio brindando:
quest’acqua ci annuncia e ci sbaraglia.
II
C’è una luce per scavare il grembo
di ogni madre che divora sangue
e ossa del fanciullo:
laggiù, tra il riso e le stelle,
qualche verbo spaiato rivela
la mia infanzia devota al vagito.
Eppure sguazza ancora
la salvezza nella voce…
III
Quest’aria che ci scheggia non disperde
le crepe nerissime lasciate
dalla prima lingua all’ultimo
singhiozzo. Ed è la furia:
furia da verme bruciato
in un trionfo di vocali; furia
che strappa a morsi questi angeli codardi.
Più in basso c’è l’infanzia, c’è Selene
che m’invidia e che mi stupra.
IV
Ma chiudimi nel ventre
delle rose; abbattimi
in un delirio di vocali: perché io
non ho provenienza, e sono
scarne le mie radici.
Certo, tremo
a Sud della lingua; scalpito
e impreco, con fonemi antichissimi:
il tuo nome è l’unico
nome in cui richiamo
quest’infanzia, e questi campi, forse il grano.
V
Le mie vertebre a strapiombo
sulla lingua, la mia lingua
a strapiombo sulla pioggia, questa pioggia
che rovescia e che deride:
annego scalzo nel cuore
dei fichi, e furibonda
la Colonna capovolge tutto il cielo.
VI
C’è una favola di sangue, c’è
un fiore in cui è crollata
la stessa luna che lo ustiona.
Vieni a mendicare tra i miei nervi,
indovina quanti cieli ho sbottonato
fino al guscio in cui tremavi:
non c’è verso che ti schiuda dalla luce.
C’è una voce che si leva
dallo Ionio, c’è
uno sciamano che intercede
per tutte le calabrie: vuole offrire
carne e stelle in sacrificio.
Mia madre sanguinava
le maree, cuciva
l’acqua alle mie vene e poi cantava
di una rondine, di un verso e dell’amore.
VIII
E voi guardate,
guardate come muore questa terra:
di un sole fradicio si ammala il marinaio,
l’oracolo straccia la sua voce.
Un’ala sporca il vento, e il vento
si estingue nella pietra.
Ho conosciuto l’ultimo grido
dei gabbiani a capofitto: sono morto
spezzando loro il becco.
IX
C’è una parola che annuncia il diluvio
e morde le vocali, strappando
l’accento a Babele.
La lingua crollata è divisa
tra gli angeli e i coloni:
da cieli e fatica imparo
che l’amore fa a brandelli gli alfabeti.
X
Questo verso è patire tutto il cielo,
discordia rosa che fa luce nel mio Sud.
Uno stormo viene ad annunciare
la catastrofe, la sorte della terra:
rivelami il segreto che ci oltraggia
sprofondando la parabola nel ventre.