Delirio (di Hasan Atiya Al Nassar)

hasan

 

 

(da Il labirinto)

 

Chi ricorda quell’ora della notte?

I soldati del mio tormento, inerti,

sono fili di vento e di neve…

febbre della tua memoria cieca,

della tua spada pazza.

Sono queste ombre volanti,

questo brivido segreto nel corpo.

Sono questo rovesciamento

nella terra del paradiso,

sono quelli che infilano una vela

nel cuore dell’inferno.

E persino l’ultima riga di quel paese

di cui aspetto il passaggio

(come le vedove nella guerra del malvagio)

per entrare nel diario dell’estate…

…O Hilla! Oh Eufrate di Nassiria…

quando sei assetato

ti porgo da bere

l’acqua con le due mani.

E balzano i piccioni dell’erba

come conigli domestici.

Nelle foreste, perseguitate dai trattori

dai grappoli dei fiori.

Questo è il campo del cuore

che le nostre mani colpiscono,

colpiscono le nostre mani la tristezza della cenere;

che si levi la mano dalla terra

verso la pace della nostra sciagura!

Chi ha costruito una casetta di mirtillo

e di palma del sud?

Ricordi il sale

che ancora resta nel tuo bicchiere?

Chi salverà allora il paese?

Chi salverà l’acqua?

Chi verserà il miele sulla tavola

o nei bicchieri da tè

al pomeriggio?

E’ dunque questa la delusione della lezione dei viventi?

 

E si levi virtuosamente

il richiamo della bontà

dopo la tua morte,

e faccia,

per non dimenticare,

gioielli del tuo sogno.

 

Era questa la strada del riccio.

Lo stendardo della fame del lamento?

Ogni volta tu canti per la gloria:

torna dal passato prossimo

lo spirito

del massacro delle oche selvatiche.

I tuoi alberi erano orecchini

con pietre di Gerusalemme:

i nostri campi

sparano le loro mine

poiché camminiamo

superando l’oblio.

E perché incliniamo alle passioni

dei martiri

e bruciamo,

bruciamo senza rimpianto

le chiacchiere dei libri.

 

Avanziamo verso il ciclo del signore

con il rantolo dell’impaurito, gridiamo all’incursione

presso le rovine della mezzaluna.

E non c’è sonno

nel vestito del matrimonio:

non c’è sonno,

chiassose sono le pallottole della morte.

I fari del martire e le sue stelle

sono le stelle della famiglia.

I nostri vestiti sono intessuti

della stoffa delle farfalle.

Al mattino cantiamo con il nostro pianto

prima degli uccelli dei vicini:

è come se volessimo innalzare

la nostra statura

prima che rotoli il mattino

o prima che bruci il pane nel fuoco.

Quello era l’effetto

che luce

le ali dell’acqua.

I nostri villaggi

custodiscono una ricchezza nascosta.

Così, adesso

noi in quell’oro ritorniamo

verso le nostre lettere in ritardo,

verso i nostri campi

o verso le nostre anime

che dalla loro distruzione tornano

con le loro rovine.

E chi conosce tra noi l’ora della notte?

Sono di ghiaccio le nostre cinture,

si estende la nostra terra

per ingravidarsi di fuoco.

Prima dell’abbandono della carne…

prima di arrostire la frusta sulla pelle…

Oh..? L’ora della donna incinta,

il suo delirio è sopra l’albero,

e i suoi panni,

eredità degli avi,

forse camminano con la perdita

delle voglie e i balzi del cuore.

Forse i figli della strada

sono i costruttori della casa.

E forse nei momenti di sconforto

cercheremo terra che fa nascere sabbia,

cercheremo il segno di Alhaj Hannon Atiya

nella kufia dei lavoratori a giornata.

Cercheremo Sciamsa figlia di Saleh

nel crollo del diluvio,

il fiore del té,

la possibilità che cessi la pioggia…

forse noi non fummo,

un giorno,

discendenti delle spade

e dei Sumeri:

la sabbia ci sembra lenta

quando è tempo di riflusso per il fiume.

Un palpito di violenza.

Difficoltà nello strappare il quieto bagliore…

E poi cosa, di un’aquila che raccoglie

le tribù dell’insulto?

E cosa della sua ostilità severa?

Poi cosa resterà

fra la densità della città

e la rottura della diga?

 

 

di Hasan Atiya Al Nassar

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