IL DISTACCO

Non è piuttosto ambiguo dover intraprendere un viaggio in macchina con l’olio che potrebbe causare esplosioni, e ruote che scivolerebbero ovunque? Non è per caso pazzesco che nel mio naso un bruciore interno si espanda per tutti gli organi fino a dar fuoco a me stessa e alla mia casa?

Cammino a stento con una mano davanti alla bocca- stando attenta a respirare piano per non ingerire niente di microscopico e letale- intanto guardo i piedi sottili e le vene delle mie braccia, non voglio comprare niente, ma sono uscita di casa dopo centocinquantasette giorni.

Perché?

Il sole, sferica armonia di niente, che vorrei prendere sottobraccio per poter bruciare ogni microbo ogni cosa che potrebbe distruggermi, se ne sta lì impiantato fermo a discutere su di me.

Il cielo si estende bianco, forse un po’ troppo, no? Mi sento soffocare come se stessi in un’enorme distesa di latte, così la gola si tappa, le ciglia si appiccicano le une alle altre tra pus ovino e mammelle incrostate. Mi converrà scappare, tornare, rinchiudermi nel posto felice, mio, dove posso prendere grandi respiri e non indossare niente.

Così, nuda, ripulisco di nuovo tutta la plastica sopra ogni mobile e sterilizzo lo spazzolino per la quinta volta (non si è mai troppo sicuri, mai).

Mi piego guardando che ci sia abbastanza spazio tra le mie cosce, che le clavicole siano sporgenti come due scheletri di uccelli, per poter prendere un lungo volo, e che non abbia abbastanza occhiaie. Mi mancano un po’ di capelli, ma è giusto così.

Erano infetti, lo erano sicuramente.

Inizio a far girare lo spazzolino intorno alla mia ugola rosea, stando attenta a non raschiare il palato e con un movimento della gola che mi permetta di non soffocare lo spingo sempre di più verso il basso.

Come cercare di deglutire e poi fermarsi improvvisamente.

Come uno starnuto soffocato.

Vomito il riso che ho mangiato cinque ore fa, stando attenta a che la tenda non si muova, che non filtri un filo d’aria sporca.

E’ tutto regolare, fino a che mi vedo nello specchio, di nuovo, ora più vividamente.

Ah, cristo, lo spazzolino verde che si confonde col bianco bile. Ah, il water che mi guarda con occhi di pietà e amicizia, non mi lascerai mai sola, vero, MIA?

Tu sei con me mentre metto un passo dietro l’altro nella mia stanza da letto dalle lenzuola candide, tu sei con me mentre mi guardo nello specchio con occhi azzurri rotondi silenziosi.

Sei con me, ma non riesco a sopportare il verde dello spazzolino. Potrebbe essere infetto, no? Sembra un piccolo albero, sembra che sia stato fuori, in un parco, per tutta la notte.

Tra la merda di cane, le scarpe della gente.

Cristo!

Lo butto, ma come cristo fare per vomitare ancora?

I crampi allo stomaco non li ho da mesi e mesi, la mia pelle è dura e perfetta al tatto, ma se mi guardo nello specchio, come in ogni istante della giornata, mi sembra di vedere un enorme pollo senza testa.

Dove ho messo la mia sveglia?

L’ho buttata, come ogni altra cosa, ma non sento freddo.

MIA è con me.

Mi prostro dinnanzi al water, una specie di dio silenzioso e innocuo, e inizio a pensare, a malincuore, ad un pullman, a tutto il sudore nelle mani e nei respiri, come cristo fate a sopravvivere così?

Il vomito mi viene spontaneo, MIA non può deludermi mai.

Adesso mi metto come ogni giorno dietro la mia finestra e guardo i ragazzini delle scuole medie uscire dal recupero alle diciotto e quindici.

E’ questo che mi ricorda che ora è.

Come tutti i giorni non sopporto i colori delle loro maglie, non sopporto il peso degli zaini sulle loro schiene.

Così mi rimetto davanti allo specchio e ammiro la mia spina dorsale che si estende sulla schiena lunga come un ponte di ferro e lame. Potrei proteggermi da qualunque cosa.

Poi tu arrivi, sto per implorarti di rinchiuderti presto la porta dietro le spalle, ma tu sai già come fare.

Non mi baci, con guanti e pallore inizi a spogliarti e disinfettare tutto.

Poi prendi la siringa, non dici niente, stai lì a strafarti, ed io non posso più farlo, siccome il mio fisico non lo reggerebbe più.

Così te lo dico: ‘Cristo, Alex. Non è giusto, io non posso più farlo, siccome il mio fisico non lo reggerebbe più.’

Tu, stonato e coi capelli neri sparsi sulla fronte e ovunque mi guardi per un po’ senza capire.

‘E con questo?’

‘Non ce la faccio, capisci?’

I nostri discorsi sono sempre così, languidi, seri ed infiniti, ma sempre con un tono pacato.

Non ce la possiamo più fare ad urlare, non ne abbiamo le forze.

‘Sono cazzi tuoi.’

‘E anche tuoi, non sono io a farmi ogni giorno le pere sul divano della mia ragazza.’

‘Questo è perché ti amo.’

Improvvisamente il cielo s’imbrunisce, devo chiudere le tende, o rischio di suicidarmi.

Poi con cosa?

Non ho niente tra le mani, e se ce l’avessi, cristo, ce l’avessi mi verrebbe di sicuro qualche malattia, qualcosa che mi renderebbe visibile.

Tutti si girerebbero verso di me.

Tutti mi riconoscerebbero.

Tu stai pensando una cosa del genere, così me lo dici: ‘La tua faccia rimane sempre quella che era prima, puoi perdere anche gli ultimi quaranta kg che ti sono rimasti, ti riconoscerebbero lo stesso.’

Io mi guardo le mani.

‘Oggi sono uscita.’

Tu rimani in silenzio, lo guardo vuoto, l’appartamento ci fissa col fiato sospeso. Sento che sta per morire.

‘Nessun autografo, niente di niente. Non è meraviglioso?’

Tu continui a guardarmi con le pupille che sembrano così dilatate da poter accogliermi per sempre.

Questo pensiero mi fa stare bene, vorrei rinchiudermi come un feto dentro ai tuoi occhi.

‘Quanti passi?’ Mi chiedi imbambolato.

‘Sono arrivata al Rosie’s.’

‘Troppo vicino, ma è già qualcosa.’

‘Alex. Non è qualcosa, ci sono riuscita. Sono invisibile!’

Tu ti sdrai sopra al divano, io non mi avvicino. Non oso più farlo, sei stato fuori, ma tu sei sempre fuori, la tua testa è fuori, ogni cosa è fuori.

Non posso rischiare di ammalarmi, si accorgerebbero di me.

Mentre ti guardo le costole penso al mio passato, a ciò che ero. Alla mia voce. Una star è soltanto un poster.

Quando mi sono innamorata di te, non mi sono innamorata davvero, mi sarei potuta innamorare di chiunque altro e chiunque altro mi avrebbe potuto amato.

E quando ho scopato con te nei cessi pubblici tre anni fa, e nelle stanze da letto adornate da cristalli e cocaina, avrei potuto farlo con chiunque altro.

Chiunque avrebbe mangiato sopra al mio corpo ricco e lucente, chiunque avrebbe fatto qualsiasi cosa.

Anche quando mi stavo suicidando, con una pozza di sangue fuoriuscita dal mio naso ed un comodino spigoloso su cui cercavo di incastrare la mia fronte.

Tutti hanno sentito il mio boato, slittato direttamente sopra giornali come inchiostro divino di carne.

Ma posso ricominciare, no?

Devo solo sparire, devo solo far sì che nessun altro mi veda.

Devo solo rinascere, sparire, cambiare forma al mio scheletro.

Non basterebbe una plastica facciale, un taglio di capelli diverso. La linea che traccia l’universo sopra il mio corpo si riconoscerebbe ovunque.

Lasciate che io sia soltanto un poster nelle vostre stanze buie, coi computer accessi e l’alcol giovane fuori nelle strade, sulle vostre librerie e sui culi sodi e adolescenti che scoperanno sopra i vostri letti maculati e senza forma.

Lasciate che io possa essere solo carta da strappare, mai reale.

Lasciate che io mi possa distaccare dalla realtà, che esca senza pensare a quanto possa essere ambiguo intraprendere un viaggio in macchina con l’olio che potrebbe causare esplosioni, e ruote che scivolerebbero ovunque, a quanto possa essere pazzesco che nel mio naso un bruciore interno si espanda per tutti gli organi fino a dar fuoco a me stessa e alla mia casa.

Senza MIA, trovata su un blog in rete, che sta per bulimia.

Senza cose inesistenti, frivole malate. Ora posso farlo, perché di me rimane solo la pelle, della vecchia me rimane solo un’impronta scarna e detestabile.

Ma posso ricominciare, no?

Devo solo sparire, devo solo far sì che nessun altro mi veda.

Devo solo rinascere, sparire, cambiare forma al mio scheletro.

Devo solo cercare di morire in silenzio, in modo invisibile, e poi, attuare il distacco.

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