dite a kalavrì (che la parola è terra)

la sagoma di un suono,
piuttosto l’ombra interminabile di un corpo,
e quella sua agonia
di segno perenne, indivisibile,
eppure così vivo,
così tenacemente vivo da non esserci.
E’ questa sofferenza d’un rifugio
scoperto a forza di parole,
che le parole spostano la terra,
la sposano e non muoiono mai.

Tenersi all’origine, ecco,
come una traccia inghiottita dal tempo,
forma della parola tempo,
quando un grumo riappare
nella sua intera bellezza
di forza evanescente,
misteriosa,
arcana,
e tutto è un punto senza fine.

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