DODICI CAMMINI COSMICI – HENRY ARIEMMA

 

 

 

 “La meta è il viaggio.”

Lukha B. Kremo

 

“Non hai bisogno di cammini

sei tu il cammino e al tuo essere

libero, il mondo è pronto.

 

Tanti ingabbiano da soli l’agire

a chiudersi in ripetizioni e limiti…

Loro ostacoli vividi neanche vedi:

naturali aperture mai sono dettate

iniziazioni, rinascite al garbuglio

di parole o mancanze ai misteri…

 

Di movimento e traguardo

l’ulisse destino ad ogni andare…

 

La tua voce onesta

è forte, segui e combatti

il giusto anche per altri

e non prepari un domani

che non sia l’oggi.”

 

Partiamo da questi versi per iniziare il percorso suggerito da Henry Ariemma in questa sua silloge dall’efficace titolo di “Dodici cammini cosmici”. La parola “cammino” è la bussola che ci permette letteralmente di muoverci nelle dimensioni iniziatiche che questa poesia prepara per noi.  Nessun culto, però, se non il culto del viaggio, se il nostro destino è l’erranza omerica di Ulisse, non c’è altro domani che l’oggi e quindi vano è ogni aldilà, non conta tanto l’approdo, l’approdo è il vagare stesso, allora qualcosa si compie.

 Potremmo vedere in questo l’essenza del mondo contemporaneo che il poeta definisce oramai pronto a condividere con lui una libertà che s’intuisce comunque pericolosa, perché è pericoloso uscire dalle gabbie di abitudini, “ripetizioni e limiti” ma in gioco ci sono tutta l’onesta e l’autenticità della nostra voce profonda, dove ogni equilibrio è precario, e ogni camminare è un errare e  sembra consolidare “la catena / umana delle solitudini”. È detto da Ariemma molto bene: “l’ulisse destino ad ogni andare”, dove l’aggettivazione del nome proprio e l’uso della parola destino ci guidano in quello che sembra un discorso morale: “segui e combatti /il giusto anche per altri”. Ma deve essere la morale greca, quella tragica, quella del Fato.

Ci permette di varcare la soglia di questa raccolta una citazione di Jung: “Il cielo stellato è il libro aperto della proiezione cosmica.”

Ed è così che, se tutto è proiezione: “ togliere significati/ agli occhi puri/è come non vedere più”, come si legge nell’ incipit della raccolta.   Attorno al pensiero di Jung sembra addensarsi l’intera silloge, dove il poeta va in cerca di orizzonti psichici, sembra elaborare una trascendenza, mettendosi in ascolto di quello che in lui si sottrae a ciò che proprio Jung chiama “lo spirito del tempo”, cui il poeta contrappone “l’insondabile”, di cui esprime i dinamismi e gli equilibri. Forse è nel baudelairiano “grembo dell’Ignoto” in cui Ariemma ci invita a cercare la forza interiore per una metamorfosi.

“La vita si brucia ogni giorno

quindi meglio viverla col fuoco

di passioni ancora tenute

dentro, a bada, senza maschere…”

Ecco dunque che si manifesta, per alimentare questo fuoco senza maschere, l’urgenza aporetica della poesia, la sua necessaria e fondante ambiguità, sospesa fra il mondo della quotidianità ordinaria e interazioni con realtà cosmiche che invariabilmente la trascendono…

Ma sembra esserci di più: è meglio che le passioni rimangano interiori, forse inconsce, piuttosto che vederle camuffarsi e travestirsi secondo le necessità della coscienza. Necessità che avviliscono l’impeto vitale originario e generano solo loro impoverite caricature. Sembra avverarsi così il rovesciamento di una frase di Freud, operato da Georg Groddeck, lo “psicanalista selvaggio”: ” Là dov’è Io, deve tornare Es”.

“Il tutto nasce che non sai stare

chiuso in una stanza…

Riempi giorni col fare e a vederti

non sprofondi mai in comodità

o adagi pensieri in catene d’ozio. “

Come non riconoscere, in questi versi di ascendenze pascaliane, l’affaccendarsi contemporaneo, epilettico nelle parole di Cioran, ma che nei versi di Ariemma è anche liberatorio perché spezza le “catene d’ozio” che imprigionano i pensieri. Anche ogni “orizzonte etico” serve per portarci lontano dalle beghe di una quotidianità che nasconde nelle sue faccende una fondamentale vuotezza. La poesia allora, per scolpire questa vuotezza nell’eternità fluttuante del simbolo.

Le sezioni iniziali della silloge sono ognuna dedicata a uno dei quattro elementi: aria, terra, acqua, fuoco, le poesie si connettono con essi in maniera analogica e non meramente illustrativa. In seguito altre sezioni: “Transiti”, “Meta”, “Sulla stella”.

“Amicizia è il motore” che ci conduce aldilà dei “biechi egoismi” come si era già visto in una raccolta di Ariemma di qualche anno fa, “Un gallone di cherosene”. L’amicizia è fra i valori più alti e già riconoscere questo, come fa Ariemma, è un atto profondamente morale, posto che qui il linguaggio è iniziatico, ermeticamente sganciato dalle liturgie linguistiche delle religioni istituzionali che in genere hanno il copyright metafisico su alcune parole, tipo la parola “morale” o la parola “sacro”.  Dodici cammini cosmici, non può essere che un’iniziazione ai misteri e all’enigma. Non ci libereremo mai del sacro, esso ritorna come orizzonte frantumato forse, ma vivo e pulsante di tutte le nostre umane contraddizioni.

Qui Ariemma sviluppa una religiosità sotterranea, s’intuisce un ardente desiderio di trascendenza che per un poeta è inevitabilmente l’atto stesso di scrivere. Scrivere è qualcosa di sacro, ci libera dai dogmatismi automatici del linguaggio, dando forma al nulla ci protegge dai suoi incantesimi, scatena le forze dell’infanzia contro “il dispotismo del significato” (Flavio Ermini), contro tutto ciò che parla una monotona lingua normativa, gregaria, normalizzante. Poesia cioè un linguaggio dell’essere che ridicolizza tutto ciò che è…comunicazione, idolo contemporaneo, ma non voglio divagare…

Il poeta dunque è colui che sa “vedere un ordine naturale delle cose”, nel gran caos delle apparenze intuisce la filigrana eterna che le mantiene unite e poi le disfa, è colui che sa “rinominare il mondo” e “quando l’invisibile/sfugge al cuore” impone a se stesso di vivere “con riserbo” perché non si cerca visibilità,  consenso o successo, con l’atto poetico, per altri saltimbanchi è la “grancassa/magniloquente” della fama e qui  un’eco di Emily Dickinson, “Che volgarità essere qualcuno!“, sembra annodarsi a questi versi. Più che riempire gli stadi, destino del poeta è svuotarli e svuotarli anche, anzi direi soprattutto, in senso metafisico, perché solo nella riscoperta di un vuoto originario la parola può germinare, germogliare e rinnovarsi. Strano compito del poeta, lavorare nell’invisibile, acconsentendo alle metamorfosi spazio temporali, visive, sonore, sinestesiche del linguaggio.

Sapienziale e cosmica in questa silloge la parola di Henry Ariemma è anche una ricognizione nella quotidianità più avvilita, in cui ogni dimensione di mistero sembra ridursi a vuote chiacchiere, a un “dialogo fra sedie”, come nelle parole di Gottfried  Benn.  Tuttavia   “un telefono e la stanza buia / davano corpo a voci misteriche” e anche le menzogne appartengono al registro delle verità se sono filtrate dall’arte, dalla trasfigurazione in essa operata, per esempio, come suggeriscono implicitamente questi versi:

“Le bugie sono vere se uno ascolta

per teatro dell’assurdo parole

sommate parole ma ora chiudi

questo sipario, sconta

l’aria che torna vento.”

Non ci resta, accettando “l’insondabile”, che perlustrare la sostanziale ambiguità del reale giacché:

“Anche il sole/ si porta il buio/ universo dentro”; non ci resta che sommare parole vane a gesti altrettanto vani, bruciati interiormente da questa fiamma di significati senza requie.

 L’inconsapevolezza, con cui la maggior parte delle persone vive, inquieta il poeta, la facilità con cui esse “dimenticano tutto” sembra spaventarlo. Siamo tutti fatti di una ”lieve materia /di pronto dolore” e nell’indice conclusivo ci aspetta l’ultima delle soprese di questa silloge originale, a dodici poesie

sono collegati i dodici segni zodiacali. Eccoli i dodici cammini cosmici: Gemini, Libra, Sagittarius, Taurus, etc”

L’enigma della poesia di Ariemma continua ad aleggiare a lungo dopo la lettura. V’invito a sostare nel riverbero di queste parole.

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