EDWARD

Nel cortile e nel giardino sul retro del palazzo in cui abito vivono tre gatti.
Uno bellissimo, chiamato “Blu” da tutti , ha una pelliccia da persiano ma il muso e le striature tipiche del gatto europeo. Era stato anche “adottato” ma i suoi padroni ci hanno rinunciato perché scappava sempre, richiamato dalla strada. Malgrado le apparenze “aristocratiche” è un vero zingaro, uno che al pasto sicuro e al giaciglio caldo preferisce pagare lo scotto dell’ incertezza alla sua libertà, quasi a volersi vendicare degli dei che gli hanno conferito quell’aspetto così nobile.
È strano per un gatto, di solito loro riescono sempre a trovare compromessi non troppo scomodi e uscire onorevolmente da dilemmi del genere: Un altro gatto, al suo posto, avrebbe optato per una base in cui leccarsi le ferite tornando dalle scorribande che avrebbe comunque continuato. Insomma, avrebbe trovato il modo, loro trovano sempre il modo.
Invece lui no, lui non ha barattato niente rivelando più un’ attitudine da cane che da felino, talmente narciso da miagolare quando vede qualcuno che lo guarda dalle finestre del palazzo solo per farsi accarezzare, del cibo non gliene frega niente, tanto per lui ce n’è sempre.
Blu è un gatto romantico e ingenuo, uno che ha letto Kerouac.
L’ altra invece è una femmina e quando è bel tempo si mette sempre sotto le finestre al pianterreno dove sa che immancabilmente qualcuno le darà da mangiare. Non miagola quasi mai, si limita a fissarti con occhi leggermente strabici, ti fotte in quel modo e SA che dopo qualche minuto tu uscirai per darle qualcosa da mangiare, lasciandoti con la speranza che un giorno, chissà, si lascerà accarezzare.
La potremmo chiamare Janis.
L’ ultimo è un gatto grigio con il capoccione tipico dei randagi di strada, la pelliccia sfatta e sporca e il muso pieno di cicatrici.
Non l’ ho mai sentito miagolare e lo vedo sempre appollaiato su qualche muro ad osservarci, aspettando il momento buono per ” rapinare” gli altri gatti o l’arrivo di quelli come me che, completamente ammaliati , lo chiamano cercando di ingraziarselo con qualche bocconcino che andrà a prendere quando non ci sarà più nessuno.
A volte lo incrocio mentre entro in garage con l’ auto e mi fermo per lasciarlo attraversare; a quel punto si ferma, mi fissa e per un attimo chiude gli occhi regalandomi il suo sorriso felino, a scoprire le “X” di tessuto cicatriziale sulle palpebre.
Un vero duro, disilluso e furbo senza cinismo, con la sua cattiveria funzionale, senza malvagità.
L’ ho chiamato Edward.
Come Edward Bunker.

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