Eugenio Montale / Caffè letterario

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
*

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
*

Mia vita, a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso
sapore han miele e assenzio.

Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.
*

So l’ora in cui la faccia più impassibile
è traversata da una cruda smorfia:
s’è svelata per poco una pena invisibile.
Ciò non vede la gente nell’affollato corso.

Voi, mie parole, tradite invano il morso
secreto, il vento che nel cuore soffia.
La più vera ragione è di chi tace.
Il canto che singhiozza è un canto di pace.
*

Felicità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
*

Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, – e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l’ora più bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L’arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s’una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia più compita.
*

Tentava la vostra mano la tastiera,
i vostri occhi leggevano sul foglio
gl’impossibili segni; e franto era
ogni accordo come una voce di cordoglio.

Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva
in vedervi inceppata inerme ignara
del linguaggio più vostro: ne bruiva
oltre i vetri socchiusi la marina chiara.

Passò nel riquadro azzurro una fugace danza
di farfalle; una fronda si scrollò nel sole.
Nessuna cosa prossima trovava le sue parole,
ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza.
*

Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.
*

(Da Ossi di Seppia, Mondadori, 1948)

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896. Si diploma in ragioneria nel 1915; acquisisce la sua formazione letteraria prevalentemente da autodidatta, frequentando le biblioteche cittadine e studiando insieme alla sorella, iscritta alla facoltà di lettere e filosofia. Nel corso della sua vita svolge varie attività in ambito letterario e artistico: è infatti poeta, scrittore, giornalista, traduttore, pittore, critico letterario e musicale. In qualità di redattore lavora presso varie riviste letterarie e, nell’ultimo periodo della sua vita, al Corriere della Sera. Nel 1967 è nominato senatore a vita e nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore a Milano nel 1981. Ci ha lasciato una produzione letteraria ricca e varia, che comprende prose, epistolari, un diario e traduzioni di autori stranieri (fra cui Steinbeck, Melville e Shakespeare). Tra le sue raccolte poetiche si ricordano Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939), La bufera e altro (1956), Satura (1971). La sua poetica si distingue per una concezione totalmente negativa della vita: in lui, il male di vivere è la stessa sostanza dell’esistenza umana. Ne consegue un totale svuotamento di tutti i valori, perchè il mondo non è che una nuda desolazione in cui gli uomini, gli oggetti e la stessa natura sono soltanto squallide presenze senza significato. Da tale pessimismo, molto vicino a quello di Leopardi, scaturisce una perenne sensazione di disarmonia fra l’anima e le cose, che si traduce in una forma espressiva arida e in immagini di forte vividezza.

Donatella Pezzino

Immagine: Edvard Munch, Melancholy, 1894

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