Il luogo è fuori dal tempo, sembra un ranch messicano, aleggia qualche simpatico buontempone, fra i quali spero di essere annoverato anche io, un sentore di griglia e chitarre si diffonde: è il CIQ di Porto di Mare a Milano; la sala dove sono esposti i dipinti è spoglia, minimale, l’atmosfera scarna di luce, clandestina; posto ideale per questa evocazione perfettamente deterritorializzata, per dirla con Deleuze, che è questa mostra di Roberto Parravicini. Deterritorializzata perché sfugge veramente ai codici d’iscrizione in un luogo specifico di reclusione identitaria. Potrebbero essere dipinti africani di un maestro zen o meditazioni di un hipster hindu a Los Angeles, o l’esplosiva immaginazione di un writer cinese che traccia i suoi ideogrammi su un muro nella periferia di Lima, come testimonianza di forze intatte nella loro oscura purezza. Insomma, tutto fuorché l’io e il suo carrozzone cerebrale. Tutto perfetto per celebrare il rito della prima mostra di pittura mitorealista del Sottosuolo.
Entrare in questa piccola sala spoglia ha significato per me varcare la soglia che divide il mondo creduto reale da questa deflagrazione di arcani, maschere e archetipi; ha significato immergersi in un liquido amniotico di cose stregate, simboli indecifrati, misteriose decodifiche dell’attualità, come nel quadro dedicato, in spregio alla narrazione mediatica, alla Grande Madre Russia. Oppure penso al dipinto intitolato “Apocalisse”, dove viene affrescata nella nostra mente di spettatori una lettura schizoanalitica della storia contemporanea, dove tutto è un grande blog di volti che si intersecano, come in un puzzle onirico a cui manca sempre un pezzo, il messaggio, perché in questi quadri molti vortici si impadroniscono dello sguardo e lo dirottano verso l’immediatezza del colore, neutralizzando lo sgomento che l’irruente originalità di queste figure può innescare, specie in spettatori un po’ frivoli e addomesticati dalla fruizione dell’arte contemporanea; ed è questo vorticare di simboli, paesaggi interiori, maschere, luoghi, il messaggio o meglio ciò che lo rende pura forma che evapora come un profumo. È l’ibridazione fra icone russe, maschere africane e il pop di Andy Warhol, ricalcolato a partire dall’irruzione di qualcosa di antico, primordiale, eterno, originario.
Qui il delirio veicolato dai giornali e dalle tv, con la spaventosa forza totalitaria della loro autorità, è contraddetto, si smargina un altro deragliamento che è quello dell’artista che si affida al proprio istinto di decodifica della fantomatica, oppressiva, spettrale Realtà, e questa decodifica non delega a terzi. Per dirla in maniera semplice, pensa con la propria testa, vede con i propri occhi, pensa con il proprio spirito, e quindi anche con le proprie paranoie, e non con il cranio di Yorick del cosiddetto Immaginario Collettivo e della sua Paranoia istituzionalizzata e autorizzata. Desidera, rielabora, crea i miti e questo è innestarsi su processi universali che appartengono all’umano da sempre: l’artista come sciamano, orchestratore dei miraggi originari. Grande lavoratore nelle fabbriche dove si produce il desiderio puro anche, e dunque sporco del grasso usato per far girare le turbine, sporco di tutte galassie necessarie per far roteare il cosmo. Ancora una volta Deleuze e le sue macchine desideranti, stavolta dipinte, congegni in grado di far esplodere gli orizzonti del nostro sguardo.
Questo è il discorso di fondo di Roberto Parravicini; in questa caverna di assurdità che è la vita contemporanea, io disegno i miei pittogrammi, i miei idoli, i miei miti, i miei totem, le mie icone, forgio dalla materia delle ossessioni metropolitane i miei serpenti e fondo così l’imperio della mia autenticità. E poi, in tutto questo, scoprire che affondare nei marasmi della propria singolarità significa anche accedere a un crogiuolo di simboli universali, mescolati in bizzarre epifanie.
Tutto questo non può che essere una potente riflessione sul colore, sempre incisivo e duttile nelle sue metamorfosi e sulle enigmatiche corrispondenze fra simboli e parole scritte che affollano il quadro, minuziosamente riprodotte, spesso con caratteri gotici, fra i viluppi di una sostanza umbratile e necessaria, lunare all’apparenza ma disciolta nel caldo giallo- ocra che è il colore della mostra che più mi è rimasto in testa, da profano, non essendo io pittore ma solo uno coinvolto profondamente nella stessa fucina dove si fabbricano i miti e le loro derisioni. Straordinaria evoluzione cromatica per chi conosce le precedenti opere di Roberto Parravicini, che è stato a lungo ossessionato dal nero, dal bianco. In queste nuove prove, in questo “Ciclo dei rituali perduti”, il quadro è saturo di particolari, dettagli, simboli, animali e lo sguardo è costretto a saltellare qua e là come in un quadro di Bosch, con cui Parravicini condivide la terribile verve satirica.
I miti sono sia ancestrali che contemporanei; sintomatici in questo senso i quadri dedicati a Elvis Presley e a Jim Morrison (riprodotto in alto), dove l’evocazione dei loro spiriti, divenuti inquietanti figure totemiche, sembra materializzarsi nelle epigrafi dei loro versi, nelle date di nascita e morte scritti in caratteri romani, nei numerosi simboli a loro associati. Quadri misteriosi, di grande impatto anche cromatico.
Per il resto in questi dipinti di Roberto Parravicini sentiamo all’opera una fredda satira, la sua urgenza apocalittica; la visione pare oscillare pericolosamente e freneticamente fra una sconsacrazione ironica e una riformulazione mitica ma in chiave parodistica di stilemi sacri che sembrano riconquistare la loro originaria ambiguità di simboli indecifrati e forse indecifrabili.
La sensazione più che di osservare è di essere osservati, da questi uomini primordiali, dai loro serpenti, come da profondi sguardi senza occhi, assorbiti dal loro primitivo magnetismo. Molto presente è il tema del Serpente, addirittura due serpi escono dalle orecchie della misteriosa e mostruosa figura crocifissa, nel quadro intitolato “Rituali perduti”, ed è naturale, necessario, perché l’artista sta della parte del Serpente, nella Genesi. Certo non dalla parte di Dio e delle sue creature, Adamo ed Eva. Ricordate? Il suo peccato è indurre nell’umano i tarli e il pericolo della conoscenza. Ancora una volta Roberto Parravicini conferma l’idea antropologica di Bataille: gli artisti sono dalla parte del male, non sono i pii, i devoti che solo servono un Senso, un Ideale, il Progresso, una Religione, un Dio, la Bellezza, uno Stato, un mito o peggio se stessi come si usa oggi sic transit eccetera, viva Stirner.
Bella mostra di un pittore visionario. Salutiamo così in Roberto Parravicini il primo dei pittori mitorealisti. Bella anche la location di una Milano ancora magica. Spero in una nuova mostra a breve.