Introduzione alla lettura di Sonia Caporossi su “Proliferazioni” di Gianni Ruscio, Eretica Edizioni

Le proliferazioni di senso di Gianni Ruscio e la poetica della Perfetta Assenza

Fammi la tua verità. Fammi inorganico. Rendimi
opaco. Cieco. Sei tu la sconfitta
dei miei occhi. L’unica. Sconfitta che genera
ritorsione del nulla dentro al nulla… unico sbocco
che in me vede senza guardare. Guardami,
guadami e per i tuoi demoni fammi libro
e costellazione.

Se dovessimo dar retta al vecchio adagio di Platone che “il bello è lo splendore del vero”, allora dovremmo inquadrare la poetica di Gianni Ruscio all’interno di una superiore sincrasi tripartita, una sorta di monstrum a tre teste composto di verità – corporeità – idealità: giacché il vero è la dimensione dell’idea platonica raggru-mata nei sensi e nel corpo che si fa parola, il luogo preferenziale dove risiede, nietszcheanamente, la concrezione fisica del nulla, asse tematico che percorre ogni singolo componimento della sillo-ge che il lettore ha fra le mani. Il nulla è infatti quel luogo – non – luogo all’interno e al di fuori del quale il tutto assume forma, ra-gione e scopo e attraverso cui, nella proliferazione di sensi e signifi-cati, l’impellente analogismo che è fondamento al poeticum in quan-to tale si fa strada in immagini e metafore rinvianti continuamente le une alle altre, come fossero connesse in un sistema di significa-zioni comunicanti, in un vocabolario poetico in cui ogni figura-zione rimanda ad altro, lessematicamente, all’infinito. Questo per-ché la poesia sembra consistere, ancora con Platone, in una sorta di superamento del dualismo parmenideo essere – nulla, nell’individuazione della dialettica di un divenire trasformativo e autogenerativo che dà l’impulso all’atto creativo di quella peculiare modalità scrittoria che ama andare a capo.
D’altro canto, il corpo è la verità dell’organico che si dipana sul crinale del cronotopo, che si dà nell’estasi della stretta indistricabi-le di un abbraccio impossibile da sciogliere perché perpetuamente nel qui-ed-ora, come scrive il poeta, «finché si allarghi / la dorsale del lampo sul tempo / dei mari e del canto», «finché si allaghi il corpo / della luce che esonda dal tuo / spazio ricavato, in fondo».
A sua volta la verità, in poesia, non è mai data come fine a se stes-sa, bensì si fa, rende inorganici e opachi perché getta l’essere del proprio sé nel nulla dell’indeterminazione, desemantizza il corpo della parola proprio nel momento in cui squarcia all’aria aperta il sistema linguistico di riferimento e lo scopre nelle sue infinite pos-sibilità espressive, rendendo la parola stessa forma informe, erme-neusi impura dello strato soggiacente alle cose.
Scrive Infatti Gianni Ruscio in una riflessione teorica sulla propria poetica: «Entrare nello spaziotempo poetico vuol dire essere attra-versati per un breve istante da un quanto di infinite possibilità. In poche parole è come dire che fare poesia è impossibile, anzi, che la poesia stessa è impossibile. Essa in effetti spesso si trova dove non ci si aspetta che sia. Dove è assente, c’è. Dove è probabile trovarla, non è presente. In pratica ha senso parlare con lei solo se si gioca al gioco di non giocare al gioco, ha senso (se senso si può dire) parlare di lei solo se ci si affaccia al grande nulla, nel vuoto di tutte le cose, là dove pulsa la materia divina nella sua forma pri-mordiale, e nello stesso tempo dove essa stessa è pure costante di-venire».
Il principio di indeterminazione di Heisenberg accorre qui a darci una mano per dipanare il carattere cangiante e in perpetuo fieri della parola poetica. Il verso, come unità sintagmatica del pensiero estetico, non permane che all’interno della sua stessa imperma-nenza; in effetti, la transitorietà fenomenica pertiene tanto più al linguaggio poetico quanto più la definitorietà del senso delle paro-le, in virtù del sostrato determinante dell’analogia, si rende evane-scente e fugace. Eppure, al di là di qualsiasi canone buddista, nel caso specifico della poesia l’impermanenza delle cose non reca
sofferenza, anzi, consiste proprio nella sua forza e nella sua pre-gnanza. Il baricentro del discorso estetico intorno al poetare, in-somma, si poggia sull’evenienza non trascurabile del caso, dell’accostamento semantico aleatorio, dell’associazionismo spe-rimentale, della sincresi che procede per intuizioni improvvise. Al-lora, in qualche modo, il lavoro del poeta somiglia a quello del lo-gico matematico, nel momento in cui, per definire l’insieme della propria opera, deve necessariamente introdurre un punto di stallo, una determinazione autocentrata, un atto di fede e di volontà uti-lizzando l’assioma della scelta.
Scegliere la parola da inserire nel verso, insomma, è come un get-tarsi nell’esserci, come aprire uno squarcio indecidibile sulla tran-sfinitezza del mondo, come lanciare un’occhiata di sbieco sull’infinito oltre la siepe: è un atto di decisionalità artistica, un li-bero arbitrio trasfigurato in anelito mistico, semovente e autoteli-co. Per questo motivo, per Ruscio non è possibile fisicamente né tantomeno metafisicamente conchiudere la poesia all’interno della dimensione angusta e coatta di una significazione univoca. Ecco perché, come scrive l’autore, occorre predisporsi all’attitudine dell’abbandono di ogni pretesa di spiegazione anapoditticamente data per buona una volta per tutte, o meglio, quantisticamente, cedere all’unica pratica possibile all’interno della costellazione me-tasemantica del verso, lasciare al lettore la chiave di lettura ripo-nendo la tentazione di farsene guida e maestro. La poesia è filoso-ficamente l’unica modalità narrativa del vivibile che possa darsi in un sistema aperto di tipo metacronico e metaspaziale; per cui do-vremmo davvero seguire l’esortazione dell’autore, quella di affi-darci all’istinto, al wittegensteiniano cogliere di colpo, all’esperire estetico allo stato brado, con l’unico strumento a disposizione, l’oscilloscopio della polisignificanza: «Rispettiamo / questa narra-zione – slacciata e riallacciata / da stralci di noi nel cordone spa-ziale, / e riponiamo le armi».

Sonia Caporossi

 

≈≈≈≈

L’armata che a valle ripiega
ci disarma dal cielo man mano,
e scaglia via la corona
per non cedere al loro ricatto.
Si consumi allora il tempo
della mia sigaretta stanca
con le beccate del tuo ventaglio.

≈≈≈≈

Dammi una lettera due tre
una sillaba una parola e rispogliami solo
dopo aver giocato a nascondino
durante l’ascesa
verso la carità, nel fondo fulgido
dell’ora e dell’amore – pozzo che cede
ogni goccia al tuo suono, specchio
e pilastro gentile.

≈≈≈≈

Stai qui
– lingua fluttuante, rito battente –
giacente gioia, nel vasto
rigurgito della galassia. La via lattea
si squaglia nella schiuma
che contiene le nostre domande,
golette senza bussola né scandaglio.

 

≈≈≈≈

Prendimi con le tue mani grandi senza fine
e innalzami alla vetta terrestre
che dentro me viene come un vizio
senza scampo. Prendimi nelle mani
tue e ordina le mie dissonanze nello spazio
tra me e l’ignoto, organizza
il tumulto, rendimi assolo per il tempo
e la roccia.

 

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