La vespa

Stamattina, mentre espletavo le mie abituali funzioni in bagno, mentre ero cioè seduto sul gabinetto, quasi a conclusione d’una pia applicazione, tra fatica e abbandono, in quel momento un po’ metafisico di vaga meditazione sul giorno che inizia, col libro aperto su frasi che si fondevano al cinguettio degli uccellini nel procedere lento di un’aurora dolcissima e soave, mi entra dalla finestra una vespa.
Io ho il terrore delle vespe. Mettetemi in bocca a un coccodrillo affamato, ma le vespe no.
Mi alzo di scatto e prendo una pantofola ingaggiando una cieca difesa verso un essere imprendibile, minaccioso, ostile e pazzo. La sento sbattere sull’applique del soffitto, si raddoppia nello specchio, la vedo e la perdo per un tempo che sembra venire dalle remote galere dell’India, avvolgermi nel miele e distillarmi goccia a goccia, su per il ceppo ombroso dei folti capegli, fin dentro l’ombelico, dietro il collo, prendo un’asciugamani e la agito senza cognizione.
Naturalmente, non mi ero pulito, ed è questo un particolare che, anche a prezzo del vostro disgusto, per onestà, non posso tacere. Mi abbasso, guardo dentro la tazza, Pollock, Mirò, Dalì, alcuni aspetti della Creazione, un senso di vago smarrimento misto a vergogna e a sfortuna: della vespa più nessuna traccia, si sarà appostata dietro qualche accappatoio pronta per aggredirmi. Mi faccio una specie di vergogna e di pena e quasi vorrei scomparire.
Mi abbasso di nuovo sulle ginocchia, allungo la mano per prendere la carta igienica ma, sgomento, mi accorgo che è finita. La carta igienica finita è una specie di sconfitta dell’umanità, un pensiero isolato nel canalone lungo dei bisogni d’una modernità indifesa e afflitta, un vuoto al centro di una battuta in cui nessuno ride.

Ora tu prendi questa immagine e combina, se puoi: alla paura la tristezza; al soave il lezzo; allo sgomento il dubbio; in fine: alla soddisfazione il pericolo. Esistono due tipi di pericolo: quello tragico e quello comico, se riesci a piantare una bandierina al centro di questo quadratino sei, diciamo così, mezzo salvo.
Non è questa la vita, mi dico?
Non è questo il passaggio tanto studiato e meditato dal sogno alla realtà, dalla realtà alla fantasia, su per il fuoco della più impreveduta, spesso fallace, percezione delle cose?

Per il mondo stava cominciando il giorno, per me cominciava una giornata di merda e il meglio doveva ancora arrivare perché non mi sarebbe partita la macchina, il bus avrebbe ritardato di mezz’ora il suo passaggio e una volta giunto a lavoro non avrei potuto aprire la porta giacché le chiavi, le chiavi, le avevo dimenticate a casa.
Pensare che oggi è il mio compleanno.
Per fortuna, sono abituato a risolvere tutto con un caffè, così entro nel mio solito bar e chiedo il mio solito caffè in bicchiere di vetro. Pohf!, mentre lo avvicino alla bocca il bicchierino mi scivola e si frantuma sul pavimento macchiando il pantalone bianchissimo di una signorina che mi guarda con un occhio attraversato dal peggior cane randagio di Buenos Aires. Guardo la signorina e i banconisti, il proprietario del locale seduto dietro la cassa, penso a uno sciame di vespe in picchiata sugli avanzi di quel caffè come a un risvolto della felicità di vivere e mi dileguo come un ladro che non sappia cosa abbia rubato.

Quando arrivo in ufficio ho già perso di vista il mattino.
Senza rispondere al citofono Ruben mi apre il portone e io salgo. Avremmo avuto vent’anni a testa, più o meno, quando qualcosa decise la nostra amicizia. Ora lavoriamo assieme e il nostro capo ci ritiene insostituibili. Ruben vive con la madre, mezzo alcolizzata, dentro un appartamento claustrofobico sulle cui balaustre sono soliti i piccioni tubare. Beviamo il caffè e discutiamo per dieci minuti, poi prendiamo a lavorare senza rivolgerci neanche una parola, fino a mezzogiorno, quando entra Matteo, il nostro capo, con una scatolino tra le mani e il volto percettibilmente turbato. -Questo, dice rivolgendosi a me, è il mio regalo per il tuo compleanno, volevo comunicarti che sei licenziato.
Dapprima entro nel legno, per un attimo avverto un lieve scricchiolìo, poi sorridendo, dico: -stai scherzando, vero?, -ma certo! rincalza Matteo, sei proprio uno sciocco! come potrei rinunciare al tuo aiuto, da quanti anni lavori qui, Andrea? Intanto dal pacchetto esce una di quelle penne con dentro l’acqua che inclinandola fa muovere una barchetta con la scritta Saluti da Ceylon e io penso che in un certo senso continuo a lavorare qui solo perché ho tutto il tempo che mi serve per scrivere. Quando Matteo esce, Ruben prende la penna e la prova su un foglio della stampante, mi guarda e dice -però scrive bene. Poi aggiunge, -sai, Matteo non scherzava del tutto. Deve fare a meno di uno di noi, mi ha spiegato che non ha più la forza di sostenere tutte le spese e ha bisogno di apportare tagli.

Torno a casa dopo la pausa pranzo, entro nel bagno e muovo gli accappatoi, prendo un rossetto di mia moglie e scrivo sullo specchio una poesia di Roberto Bolaño presa dal libro I cani romantici, mi chiedo chi siano i cani romantici, a quale specie diversa appartengano, attraverso quali finestre escano le pantomime che ci descrivono nei libri e perché, infine, mia moglie s’incazzerà quando vedrà lo specchio pieno di cani. Vado in camera da letto e mi stendo. Su una delle fasce del lampadario la vedo. Una parola che vibra sul giorno che pende, di nuovo quell’aria minacciosa. Sono certo che anche lei mi ha visto. Restiamo immobili entrambi, imparo ad ignorarla, poi, di colpo, le voglio bene; mi giro e mi addormento pensando di essere su un isolotto del pacifico, dentro una barchetta bucata che non affonda mai.

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