Era una lotta, ogni gemma di granturco
che scoppiava, una di meno,
nel mio tegame all’alba, una lotta
tra me, guardia sdrucita
con la pistola a salve
e i ladri di vita.
Era cominciata nel neolitico
con la mano corteccia di mia madre
saponata di fresco
che mi strappava per la guancia
ai sogni ottovolanti
e non aveva smesso
di consumarsi senza sosta
come un braccio di ferro
infinito, un pugno
sott’acqua, un tiro alla fune.
Ma era una lotta vana, vana
la mia e non avevo mai smesso
di saperlo, vani i valli, gli spinati,
gli argini, le paratie, i cavalli
di frisia, le porte tagliafuoco
che progettavo
durante l’ora d’aria.
E altro non richiamavano
quei miei avambracci al viso
nel loro scricchiolare prima
dello schianto,
se non il rimpianto
di una partita venduta
prima dell’inizio
agli scommettitori.