Lungo Tevere (di Dafne Rossi e il Ninja – parte 1)

4.pontemilvioPrima di tutto, un mito da sfatare: viaggiare in bicicletta non è una sofferenza, anzi è un piacere al quale sempre più persone, per i motivi più diversi, non intendono rinunciare.

C’è chi usa la bicicletta per fare sport. Trattasi di persone che in tutine colorate e attillate, con le biciclette leggere e veloci e il contachilometri sul manubrio, si slanciano per chilometri e chilometri di corsa sulle salite ad alta pendenza. Sono quelli che Stefano Benni in Bar sport chiamava “nonni coriandolo”.

Altri prendono la bicicletta per le passeggiate della domenica, e all’arrivo si fanno venire a prendere in macchina, oppure tornano in treno; quando organizzano lunghi viaggi di gruppo si fanno sempre seguire da un’auto nel caso abbiano bisogno di riparare un pezzo, cambiare una camera d’aria, o abbiano la borraccia vuota.

Oppure ci sono i cosiddetti “rapitori” di biciclette, quelli che viaggiano in automobile e portano le bici legate sul portabagagli, per usarle poi per poter passeggiare una volta stabilito un campo base in qualche bel luogo.

A parte è il ciclista urbano, eroe dei giorni nostri costretto ad affrontare ogni giorno i mille pericoli della città.

Qui si vuole raccontare un modo ulteriormente diverso di pensare, la concezione di chi ha fatto questo viaggio, di chi pensa la bicicletta come un mezzo di trasporto, la usa non per correre, ma per rallentare, osservare ciò che ha intorno e godere del paesaggio circostante, sentendosene parte integrante. Chi va in bicicletta è infatti a contatto diretto col paesaggio, un cespuglio che sporge dal bordo della strada, un animale che compare all’improvviso da dietro la curva; è costretto a osservare come cambia il territorio, arranca in salita, a volte trasportando la bici a mano su pendenze troppo ripide, corre in pianura, vola in discesa senza quasi muovere le gambe; sente il vento che soffia sul viso, la pioggia che batte forte e rende la strada scivolosa, il sole che picchia nei pomeriggi caldi.

Chi guida un’automobile non ha la stessa percezione della strada e del paesaggio, poiché è rinchiuso dentro una scatola di lamiera senza contatti con l’esterno e sente solo il rombo del motore, mentre qualsiasi oggetto esterno è percepito come un ostacolo o un disturbo al suo avanzare.

 

Dove si dorme e cosa si mangia

Durante questo viaggio, si dorme nei bed&breakfast o nei campeggi, nella peggiore delle ipotesi buttando le tende in mezzo ai boschi, o nella migliore a casa di amici o parenti che si ritrovino lungo il percorso. Si mangia nelle trattorie rustiche e semoventi sperdute tra i tornanti di montagna (vedi sempre Stefano Benni per il “ristorantino rustico”) o nei bar a buon mercato, alle tavole calde, pizzerie, o a casa dei suddetti parenti/amici. Si beve acqua dalle fonti che si trovano soprattutto sulle montagne, o dalle fontanelle dei paesi e dentro i cimiteri. Durante i pasti, invece, si beve vino, possibilmente rosso

, carburante fondamentale per percorrere la gran quantità di chilometri che aspettano il ciclista.

 

Il tempo

Non bisogna mai fidarsi delle previsioni del tempo quando si sta fuori per molti giorni e ci si sposta continuamente. I ciclisti guardano sempre il cielo azzurro in mezzo alle nuvole e le nuvole oltre le montagne. Le previsioni daranno pioggia perenne su tutto il percorso. Un ciclista viaggiatore tiene sempre in conto due cose: innanzitutto che quando sale per le montagne il tempo può variare da un secondo all’altro e da un tornante all’altro. Dietro la curva potrebbe aspettarlo la pioggia, la grandine o addirittura la neve, e alla curva successiva ritroverebbe il sole.

Inoltre, essendo il ciclista sempre in movimento potrebbe per esempio capitare che la pioggia ci sia nel luogo di arrivo della tappa del giorno, ma che nel momento in cui egli vi arriva, le nuvole si siano già spostate altrove. In questo caso il ciclista avrà sempre il sole sul suo cammino. Naturalmente potrebbe capitare anche il contrario e incontrare acquazzoni continui.

 

Divinità

C’è sempre una divinità/spirito/folletto che protegge i viaggiatori e che li aiuta nei momenti più terribili. In questo caso, naturalmente, trattandosi di un viaggio lungo il fiume Tevere, la divinità protettrice è il dio Tiberino. Si può presentare sotto varie forme, in genere nelle sembianze di vecchietto/a che si trovi per i campi e indichi la via giusta quando ci si è persi in mezzo alla campagna. Sempre presente in questo viaggio è anche la dea dei boschi e della luna, Artemide, nelle sembianze della bicicletta di Assunta.

Naturalmente, non bisogna sperare nei miracoli. Gli dei menzionati compariranno solo se invocati.

Nel viaggio apparirà spesso anche la Madonna, sotto migliaia di nomi diversi, che i ciclisti riescono a vedere dopo chilometri e chilometri di salita sotto il caldo sole del primo pomeriggio.

 

Strade

Uno dei compiti più ardui del ciclista viaggiatore è cercare di evitare l’autostrada alla quale cercheranno di portarlo tutte le indicazioni per i paesi che incontrerà lungo il tragitto. Ciò è aggravato dal fatto che per le strade secondarie non ci sono affatto indicazioni (specie per quelle non asfaltate).

Le statali sono le meno preferite. Le provinciali le migliori, meglio ancora quando non trafficate o bloccate per motivi come frane, il che tiene lontane le automobili. Le strade bianche sono quelle più gettonate quando non troppo dissestate.

La domenica è il giorno più buono per viaggiare, perché è vietato il transito ai camion.

Oltre alle strade non trafficate, la cosa bella è che con la bicicletta si è costretti a seguire percorsi che, a causa della presenza delle autostrade, sono completamente ignorati: si seguono i tornanti, si sale per le montagne da un versante per scendere dall’altro. Si passa per valli, lungo i fiumi e per i campi. Si attraversano paesini dove la modernità fa ancora i conti con un modo di pensare e di vivere più antico, e dove gli estranei sono guardati con diffidenza mista a curiosità.

 

Praticità

Infine, bisogna dire che la bicicletta è un mezzo di trasporto estremamente pratico, specialmente quella da strada: con un paio di chiavi si può smontare e rimontare da zero, ovviando così ad eventuali guasti lungo il tragitto.

 

Perché seguire il fiume

Il fiume è una presenza importante per il territorio. Scava le montagne e forma le valli. Permette la presenza di una gran quantità di forme di vita, vegetali e animali. Vi si creano insediamenti, centrali idroelettriche, si coltivano le terre lungo le sue sponde. Funge da scarico per i rifiuti della città e per gli scarti delle fabbriche. La terra che bagna viene usata per l’edilizia. Un tempo il fiume era anche navigabile ed era fondamentale per i commerci o per il trasporto della legna dai boschi ai centri abitati.

L’intera città di Roma non esisterebbe senza il fiume Tevere. È considerato il terzo fiume più lungo d’Italia, e attraversa ben tre regioni prima di sfociare nel Tirreno, a Fiumicino, a sud di Roma.

Eppure, se chiedete ad un romano dove sorge il fiume Tevere, non vi saprà rispondere.

Pochi sanno infatti che la sorgente del Tevere si trova sul monte Fumaiolo e che Mussolini, unico personaggio storico ad aver dato molta importanza al fiume che “tanto sacro fu ai destini di Roma” e nato in Romagna, non poteva permettere che il fiume della città eterna sgorgasse dai monti toscani e cambiò il confine di un’intera zona d’Italia che prima si trovava nella provincia di Arezzo e tutt’oggi si trova in quella di Forlì. Buffo come basta cambiare un nome, o disegnare una linea su una cartina e cambiare la disposizione del mondo.

Degno di nota il fatto che proprio queste montagne che hanno dato i natali all’uomo che tanto nocque ai destini d’Italia, si macchiarono del sangue dei partigiani che vi trovarono la morte per combattere il regime fascista e che ancor oggi proprio qui di questi eventi se ne conservi fortemente la memoria.

Ma torniamo per il momento al Tevere e al viaggio lungo il suo corso.

Il viaggio non comincia sul Monte Fumaiolo.

Bisogna partire infatti da ciò che ci è più vicino per poi giungere passo passo all’origine delle cose. Bisogna scavare a fondo, risalire il corso del fiume controcorrente, per arrivare alla sorgente. Così il viaggio inizia proprio dalla fine. Da Roma.

 

Castel Giubileo

La cosa bella dei ponti di Roma è che ognuno rappresenta un pezzo a sé di architettura. Si distinguono l’uno dall’altro: ci sono ancora quelli in pietra antichi costruiti dai romani e altri più moderni realizzati per far fronte alle esigenze del traffico cittadino. Uno dei ponti più belli è sicuramente Ponte Milvio, tra i più antichi e non accessibile alle automobili. Da qui comincia una pista ciclabile che si addentra all’interno di un parco dove non esistono più strade asfaltate né palazzi. Siamo a Castel Giubileo. Sembra di essere già usciti da Roma. Si passa attraverso campi da tennis, prati in cui pascolano greggi di pecore, laghetti pieni di rane, torrenti, e naturalmente il Tevere con le sue anatre, i gabbiani e i cormorani, che scorre in mezzo ai boschetti lungo tutto il percorso. Il sabato e la domenica si riempie di biciclette, da quelle leggerissime di carbonio, a quelle da passeggio, alle mountain bike.

Colui che ha progettato questa pista ciclabile doveva essere una persona estremamente sadica. È costituita tutta di piccoli ma profondi avvallamenti, e perciò a ripide discese si alternano ardue salite, in cui bisogna spingere forte sui pedali per evitare di rimanere in fondo.

Alla fine della pista si arriva all’altezza del Grande raccordo anulare e da qui partono due delle principali vie consolari, la Flaminia e la Salaria, entrambe ad alto scorrimento. L’idillio finisce e bisogna tornare in mezzo al traffico. L’idea di mettere almeno un piccolo tratto di ciclabile o inserire una stradina laterale per chi voglia raggiungere in bicicletta sano e salvo luoghi meno trafficati non ha minimamente sfiorato la mente di chi ha progettato questo percorso. Così, se si riesce a non perdersi nell’immenso groviglio di strade del raccordo e a non finire dritto sull’autostrada, si può imboccare la Flaminia.

È proprio da questo punto, una volta lasciata ufficialmente la città di Roma, che il racconto inizia.

Il viaggio alla foce è invece rimandato per il momento dai due ciclisti, sia per l’inaccessibilità di alcune zone, come Ostia antica, sia per l’obbligo di seguire, in quella direzione, strade ad alto scorrimento, vietate alle biciclette, nonché pericolose.

 

La via Tiberina

I due viaggiatori svoltarono per un paio di svincoli pericolosissimi cercando di evitare di perdersi sul raccordo. Chiesero indicazioni, passarono sotto un ponte e si ritrovarono sani e salvi sulla Flaminia: la percorsero per un breve tratto. Alla loro sinistra c’era solo il grigio dell’asfalto, le auto, il fumo. Alla loro destra, però, in mezzo alle transenne e sotto l’autostrada che correva loro di fianco, si riusciva a intravedere una nota di azzurro. Era il Tevere, che continuava placidamente a scorrere al loro fianco, nonostante il paesaggio tutt’intorno si fosse profondamente trasformato. Si sarebbe quasi potuto pensare a un bellissimo spettacolo se non fosse stato appunto per tutto il contorno. Non potevano nemmeno fermarsi a guardare poiché rischiavano di essere travolti da un momento all’altro da qualche automobilista particolarmente infervorato.

Riuscirono a interpretare nel modo giusto le varie indicazioni e ad imboccare finalmente la via Tiberina.

Tra i molti luoghi orrendi presenti nella periferia di Roma, il primo tratto della via Tiberina era sicuramente ai primi posti per bruttezza. Innanzitutto, a dispetto del nome, e dei tanti nomi che avevano gli esercizi commerciali (hotel, bed & breakfast, ristoranti, un grosso centro commerciale) su questa strada, il fiume Tevere non si vedeva mai. Il fiume scorreva infatti oltre l’autostrada che a sua volta correva a fianco della via

Tiberina. Inoltre, come si accennava, c’erano una serie di bar o ristoranti esattamente a ridosso dei pannelli insonorizzanti dell’autostrada, dove si poteva provare l’ebbrezza di prendersi un caffè con paesaggio le auto rombanti.

A lato della strada c’era anche un camioncino di un venditore ambulante di verdure, accanto al quale un cartello scritto con un pennarello rosso, prometteva offerte speciali.

Arrivati al centro commerciale Tiberino la strada si divideva in due. Un tratto diventava leggermente più tranquillo, fatto di villette una dietro l’altra e il paesaggio intorno iniziava a diventare più verde. Il Tevere non si vedeva ancora.

 

Sul ciglio della strada, sopra un muretto, era seduta una ragazza. Non doveva avere più di 16/ 17 anni. Non portava nulla di vistoso, era semplicemente molto bella. Aspettava. Probabilmente che si fermasse qualche auto con a bordo un uomo solo in cerca di attenzioni.

Ne incontrarono tante di ragazze come lei. Alcune altrettanto giovani, altre più grandi di età, o che tali si dimostravano, molte con un seno enorme, sicuramente rifatto, messo in bella mostra, altre ipertruccate con le labbra gonfie. Molte straniere, di colore.  Alcune erano sedute semplicemente sui muretti a bordo strada, altre erano attrezzate con una sedia o una poltrona sgangherata e una bottiglia d’acqua. Altre ancora aspettavano sedute dentro un’automobile parcheggiata.

Perché così tante? Era davvero la fame, la crisi, la povertà? O semplicemente un fenomeno che si era sempre verificato? O quello era l’unico lavoro certo in un mondo così precario?

La cosa più triste era quando si incontravano sedie vuote e auto parcheggiate senza nessuno a bordo. Al novanta per cento, quelli che si fermavano erano gli stessi che facevano le morali, uomini possibilmente d’affari e magari sposati, che andavano a messa la domenica. Quelli per cui le donne si distinguevano in due categorie: mogli o fidanzate/ sorelle o parenti varie sacre e intoccabili da un lato, e puttane che potevano essere “usate” da tutti e a piacimento dall’altro. Quelli che pensavano alle donne che li riguardavano come roba di proprietà e che se avessero sorpreso qualcuna delle loro a fare questo mestiere l’avrebbero ripudiata all’istante. Esseri abietti, i “maschi” medi italiani.

 

Passarono esattamente in mezzo a un complesso di case e ad un angolino c’era una tavola calda con i tavoli quasi in mezzo alla strada. Là i due si fermarono a mangiare.

5.

Nazzano

Man mano che si allontanavano da Roma, sembrava che il traffico diminuisse, il verde aumentasse e l’aria si alleggerisse un po’ dello smog causato dal traffico.

Si incontravano finalmente i primi paesini veri e propri, esterni alle maglie di quell’immensa città.

Una strada laterale che scendeva ripida portava verso Nazzano. I due viaggiatori, stanchi e un po’ incerti sul tragitto da percorrere, la imboccarono nella speranza di trovare un posto dove riprendersi, riempire le borracce e riflettere un po’ sul proseguimento del viaggio.

Un’insegna apparve loro davanti: Bar Punto di riferimento. Era esattamente quello di cui avevano bisogno. Un punto fermo sul loro cammino. Si fermarono per un caffè.

Il paese si trovava un po’ in alto e da una terrazza si vedeva il fiume che scorreva tra file di alberi e prati verdi. La vista di un paesaggio finalmente bello e naturale li tranquillizzò.

Alla fontana sullo spiazzo davanti al bar riempirono le borracce. Mentre aspettavano di pagare, in mezzo a un gruppo di uomini che giocavano al gratta e vinci o compilavano le schedine del totocalcio, il ragazzo che stava alla cassa aveva assicurato loro che quell’acqua l’avevano sempre bevuta in paese, ma che ora era considerata non potabile poiché avevano cambiato i parametri di legge. Dato che nessuno dei paesani di Nazzano mostrava di essere a rischio di morte a causa di quell’acqua, i due avevano deciso che non ci doveva essere pericolo.

 

 

Dafne Rossi

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