Marco Melillo – Poesie e riflessioni

 

io spero che te lo diano

un buon libro da leggere

qualcuno tra le folate autunnali

che affolla la tua meraviglia

nemmeno se vuoi gli scaffali

se cerchi chi non cerca niente

se per te il presente è un futuro

da dimenticare

ma niente ti arriva, lo so

quasi niente

è un sussulto di cane rabbioso

quest’anima appesa agli insulti

gridati dal telegiornale.

 

*

Legno scuro, restano i rumori delle case

oltre cortina: paradiso o inferno

estate e inverno e nulla passa la pazienza

forse eccede solamente per pensare

come batte il pugno, se la vita le fa male.

 

29 ottobre 2019

*

Si arriva alla reprimenda cantabile

ed oltre, perché è domenica

tra il campanile e i caffè disegnati

a Natale di qualche anno fa

non si pensa: piccola domenicale

madonna che sta coi suoi fili

in disparte in un vicolo, vuoi tu

contare le sillabe tutte strappate

all’agone di magnificenza

che di queste morti fa vita?

 

27 ottobre 2019

*

Nella sventura i più ricchi si beano

della buona sorte

la loro elemosina un falso d’autore

per noi, che non abbiamo mai

come dubbio la morte

un affronto ulteriore, come

ne avessimo ancora bisogno

pestati dai turni del loro lavoro

pagato da noi con la vecchia moneta

di vita non vita

ossequiato da noi nelle fabbriche

negli ospedali le scuole, perfino

nella più utile tra le botteghe.

Sono altri giorni di costi forzati nella pandemia,

sono prigioni di senso e pensiero

che fanno altri schiavi

all’uscita

ci attendono ancora dinieghi

rifiuti dal pago benessere come modello

di civiltà tanto evolute,

torme di disoccupati senz’armi

che il corpo e la mente da schiavi

per mandare avanti le macchine.

La buona sorte decide chi deve salvarsi

la mescola ardita dei politicanti

il privato onanismo dei giochi,

la sazietà che spendiamo in un giorno dell’anno

per disimparare che siamo tutt’uno

e nessuno, sia capitano d’industria

o sia re, non può ricevere tanto di più

di un garzone

dal colletto nero stracciato.

Quel nero è un lutto più forte della malattia

lo portiamo con noi lo vendiamo:

è eredità che si passa tra generazioni

forchetta messa avanti i morti

mentre gli oligarchi si mangiano i vivi.

E adesso proviamo un ringraziamento

mettiamoci ancora in ginocchio

sui chiodi avanzati

per ciò che è elemosina a tutti gli effetti

per tutte le fiere ammansite

per ciò che per noi è vita a stento

per loro, dovere.

 

Napoli, 26 marzo 2020

 

*

“E adesso il sole”

 

Per tutto questo ludibrio, e adesso il sole

che pesa con noi nelle case. Basta spiarlo

a capire come somigliamo al rigore di piante

che cosa abbia messo un bisogno

dov’è più abbondante il sentire.

Mistero o sogno?

 

*

 

Certo che si rischia di far tardi

tra i giganti non c’è più resurrezione

è notte nuda e fredda senza pane

senza scorte dentro il frigo.

Ma io ancora sono al vecchio amico

che non rischia in me

nemmeno una parola.

 

*

Così non vivi. Ti hanno accecato

le volte della quarantena e rimbalzi,

gatto furente specchiato nei rivi

di sangue del tuo sonnolento ostensorio.

Ma chi non gode di questa coscienza

impazzendo di mani di braccia,

di baci da ricordare?

Forse che fuori la vera prigione

è il dettato del mondo

quando non si vede ricchezza

che stani la cellula prima.

Il vento che ti hanno dato

è la traccia virale

che esclude la voce da vita.

 

Napoli, 5 marzo 2020

 

*

Anche scappando non arriverei

dove voglio arrivare.

Mettiamo pure, silenzio

che le strade vuote poi fossero

facili da attraversare.

E non ci fosse più la polizia

ed arrivando nessuno

che facesse mostra

del suo ministero.

Ma non si può, non è possibile

non lo sarebbe nemmeno

se fossimo liberi

e poi da che cosa, da chi?

Ma voi credete davvero

che solo di là non ci sia

un cimitero?

 

*

Riflessioni di chi prova a leggere il mondo

 

Partiamo da un presupposto. Forse molti di Voi pensano – a torto o a ragione – che in questo momento un poeta debba parlare di medicina, magari. Forse sì, se quel poeta è un dottore. E siccome il poeta è un uomo, una donna, adotta le medicine che può, provando ed anzi esercitando sempre il proprio pensiero critico anche in periodi sostanzialmente inediti come questo. Però attenzione: questa ultima asserzione non può voler dire che invece solo il poeta debba farlo ed anzi, siamo tutti chiamati a farlo, se sentiamo di avere la lucidità necessaria per farlo. Anche questa è vocazione, chiamata. La poesia lo è, la vita civile lo è, una comunità più o meno vasta lo è.

Uno dei miei autori di riferimento – Julio Cortázar – in più passaggi si rivolse al proprio ed all’altrui lavoro letterario includendo anche al centro del ragionamento la parola “intellettuale”. Chi è per noi oggi? Perché abbiamo preteso dal nostro mondo una omologazione che ne screditasse le funzioni, le opere, per poi ridurli all’estrema finzione di una democrazia ormai svuotata di senso a causa anche delle irricevibili attività di istituzioni inette e capaci di abusi di potere devastanti?

Cortázar scrisse giustamente che un intellettuale non è un “legislatore del mondo”, ma scrisse anche che non si può chiedere (ad esempio) ad un poeta, ad un letterato – come ad una persona pensante – di scrivere come gli sia richiesto o sia richiesto dalla circostanza, perché questa sarebbe già una tortura, per sé e per gli altri. Si potrebbero fare migliaia, forse centinaia di migliaia di altri esempi: non è questo il punto.

Veniamo allo stretto complicato del presente provando l’insana operazione di cavalcarlo ed attualizzando quelle parole. A chi si rivolgeva veramente? Ai primari attori di potere che vediamo scorrere su un televisore o online sui social network e sui media in generale? O si rivolgeva a chi non viene ascoltato e che sempre nel magma delle masse viene coinvolto e dissolto (insieme, naturalmente, ai pensieri ed alle forme che non avevano fatto in tempo a perpetuarsi)?

Parlare al proprio tempo è tremendamente complicato, perché la realtà lo è. Noi tutti pensiamo di tenere sotto controllo ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo e per queste vie di sapere che non esiste al contrario ciò che non vediamo, non sentiamo, non tocchiamo o non possiamo sperimentare. Non è così. Non è mai stato così. Per questo motivo però al presente noi possiamo parlare con la follia della poesia – più o meno lucida a seconda dei casi – e soprattutto al futuro, come anelito di vita, come privazione di morte. Folle come la vita, come la vita piena di inesattezze ed imperfetta, ma non negligente rispetto ad una vocazione. La poesia non è solo oralità o scrittura: è comportamento, azione al modo in cui lo spazio bianco in attesa di segni che metaforicamente è la cosiddetta “vita di tutti i giorni” prepara – con i propri atti – il guizzo che si propaga con una forza che sembra del tutto autonoma al malcapitato. La poesia è (anche) una condanna, che vive e matura nel silenzio e nel sonno del mondo, e vorrebbe uscirne.

Ci perdiamo oggi in messaggi rassicuranti che tutti insieme compongono un puzzle estremamente violento, e non proviamo l’etica come riflessione speculativa, in grado di farci intendere il nostro ruolo nel mondo, che è da comprimari e da gregari, non da protagonisti al cospetto della natura che abbiamo devastato (con essa il lavoro umano).

Eppure, nei primi giorni in cui si è prospettata questa prigione di senso che è poi diventata la quarantena forzata, confessai a me stesso che mai, mai mi era sembrato che questo qualcuno che è lo Stato (impersonato anche proprio malgrado dalle forze dell’ordine innanzitutto) si fosse così assiduamente occupato di me, di noi. Un tormento continuo in grado di solidificare un principio estremamente pericoloso: quello di farci vivere sempre e comunque in virtù di un fine disegnato, che peraltro oggi non è neanche più la famiglia ma solo il consumo. E così si può permettere a certuni di farsi chiamare giornalisti (Feltri, Porro, Sallusti, solo per citarne alcuni in un mare pieno di cherosene), ad altri di farsi chiamare politici, ad altri di farsi chiamare cavalieri del lavoro.

Dove eravate ieri? Mi dissi. Certamente in un laissez faire che ha permesso alla politica di legittimare la propria inettitudine creando mostri da darci in pasto volta per volta, certamente eravate nell’affarismo delle privatizzazioni (una malattia, come il denaro), certamente eravate nelle prassi allucinatorie che contribuiscono insieme all’utilizzo di altri poteri come il giornalismo – appunto – di prender parte ed alimentare le continue carnevalate dello sciacallaggio mediatico. Soprattutto eravate dove siete oggi: nella mancanza di una adeguata politica di redistribuzione delle ricchezze materiali a scapito di una nascita e di una incapacità anche sopravvenuta di provvedere a se stessi, come si dice; nella mancanza di lavoro; sulle schiene degli sfruttati, pronti a rivendere la loro pelle (peraltro a basso prezzo) ieri alle multinazionali dell’energia, oggi sempre più a quelle dell’informazione. Schiavi in fondo, anche voi, ma cattivi, intimamente e profondamente perversi. Ed eravate e siete nell’editoria tutta (salvo rare eccezioni), contribuendo ad una produzione meno che mediocre, facendo in modo che fossero – nel caso dei libri – gli addetti al marketing ad occuparsi di scegliere attori ed opere di questo sistema falsato fin dalle proprie radici. Quale cultura ci si poteva aspettare, dunque, da voi? Quale meritocrazia? Quale cenacolo spirituale? Perché di spirito dovremmo pure occuparci, di coltivarlo, ma non può farlo un Papa (tutto è politica, e molti di noi sono stati costretti ad ammettere rispetto a temi cruciali quali ad esempio la migrazione di popoli, che certe prese di posizione potessero trovarsi quasi solo esclusivamente su Avvenire!).

Siete nel complesso – salvo eccezioni – l’elogio continuo del mercato e della prostituzione che – in Italia – portiamo avanti molto spudoratamente dalla cosiddetta era Berlusconi (che l’ha pienamente sdoganata), e che nessuno ci ha ancora levato di torno e dalla testa.

Molti dicono ci sia bisogno di speranza adesso, e lo dicono in vista di un 25 aprile mai così infausto. Lo ritengo personalmente apprezzabile pensando a giornalisti e personaggi come – ad esempio – Gad Lerner. Ma la speranza uccide. Soprattutto quando viene fatta passare come alternativa all’immobilismo collettivo che giace nell’acritico e sterile pensiero di questi giorni.

Il rispetto dei morti e di chi lavora per tutti noi non c’entra e mi sento di scriverlo perché è quella retorica ad essere sbagliata, così come è sbagliato osannare sindaci e governatori sceriffi.

Da molto tempo avremmo dovuto iniziare a discutere di transumanesimo, per evitare brutte sorprese. Invece ce le troveremo davanti ad occhi chiusi come siamo adesso, alla fine di questo lungo frangente scellerato. E non sto parlando di androidi o di fantascienza, ma di società del controllo e dell’anestesia di pensiero.

Ciò che ci hanno portato via questi lavori forzati di oblio e di intelletto è nel silenzio. È il silenzio il vero grande assente di questo momento storico. Il silenzio che si fa nelle strade quando ci si passa in mezzo alle persone, quando si gira l’angolo e si osserva qualcuno in lontananza, quando ci si approssima alla vita di un mare. È il silenzio – come risorsa per entrare in un mondo che ci attrae da sempre – a nascere tra musica e rumori. È l’intervallo necessario di vita che ci consente di scorgere, immaginare, preconizzare altra vita.

Non è “solo” la natura – che in tanti vedono “riprendere ossigeno” – ma è anche quella natura. Per questo il periodo che stiamo vivendo non è necessariamente uno spartiacque – almeno per l’abitudine di sprecare il silenzio e non accedere alla contemplazione – ma potrebbe essere un veicolo per ciò che oscuramente le nostre coscienze hanno riposto, e per l’attaccamento alla vita fatto di abitudine, e per gli insegnamenti di “vita non vita” che non partono per ricercare i fondamenti dell’altro e dell’alterità.

Mi scandalizza pensarci supini allo stesso mondo che rivorremmo indietro, senza pensare, senza provare a capire che il sistema che ci ha fatto finora sopravvivere era già malato e lo sarà ancora, se riteniamo di poter fare a meno di questi elementi, se riteniamo che l’ipocrita pedagogia degli oppressi che continueranno ad impartirci sia l’unica via per “progredire”, se non cercheremo un altro dialogo che non riguardi l’uomo con o contro l’uomo soltanto, ma la nostra funzione autentica su questo pianeta.

Decompressione di un lettore

Ho scritto queste righe di getto per accompagnare i testi che qui vengono pubblicati grazie all’invito di Stefania Di Lino. Ho cercato di esprimermi in modo comprensibile. È certamente poco, pochissimo: un nulla. Cambiando prospettive si possono sempre trovare errori, cambiando tempo, paradigma. Credo anche che i testi poetici possano “parlare” da sé. Ma non me la sono sentita di scrivere una nota di poche parole che non provasse – almeno – a sollevare criticità in questo contesto storico ed in ogni caso sono solo le mie opinioni, quelle di una persona senza padroni o committenti.

Grazie.

12 novembre 2019, Napoli

Nato a Napoli nel ’79, sono cresciuto a Torre Annunziata. 2008-2014, tra i soci del primo caffè letterario della cittadina vesuviana. 2013: ho fondato insieme ad altri una webzine culturale chiamata “c’è vita su Marte”, proponendo una rubrica di poesia contemporanea fino al 2016. Alcuni miei testi sono in antologie di contemporanei. Alcuni racconti sono stati adattati a brevi pièce teatrali, altri pubblicati a puntate su alcune testate locali (cartacee). 2017: premio “Anna Maria Ortese” promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (poesia inedita); nello stesso anno pubblicato sulla rivista “Poeti e Poesia” (n°42). 2018 e 2019: tra i finalisti di “poesia a Napoli – II e III edizione” (Guida); 2019: riconoscimento al Premio “Città di Conza” (poesia inedita). Ho frequentato il teatro amatoriale, per alcuni anni ho curato una trasmissione radio su musica, cinema, letteratura. Da appassionato traduco poeti contemporanei americani. Vivo a Napoli.

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