Naturalmente non lo so con esattezza assoluta, ma credo di poter dire che la mia poesia nasce da una pulsione fondamentale: la pro-vocazione dell’esistente mi spinge a non accontentarmi delle superfici, ma a cercare varchi – attraverso i tegumenti e gli apparati – verso l’oltre che le cose “normali” nascondono. Da questo oltre emergono, come tracce di un mondo perduto che bisogna percorrere a ritroso, gli echi confusi di una grande Essenza. Il compito della poesia è di imparare a convivere con le fratture innumerevoli della nostra vita per setacciare e raccogliere – in modo sempre più stringente e circostanziato – questi echi privi di memoria, anzi oltre la memoria. Direi perciò che la poesia è un “mandala” spirituale che permette di uscire dal fiume del tempo, anzi di entrarci così profondamente da riuscire a colloquiare con le energie profonde racchiuse dentro e intorno a noi. Il presupposto di questa operazione affonda le radici nell’Ascolto: senza ascolto non esiste la parola. È dall’ascolto e dal silenzio che si parte per divaricare i lembi del mistero. Ecco, questa mi pare una immagine efficace: il poeta tira i margini dell’aria e infila la testa nel “buco” per vedere che c’è dall’altra parte. Quali verità contengono le apparenze “reali”? La verità ultima è ovviamente inattingibile, fintanto che si è vivi; si possono episodicamente agguantare soltanto “verità relative” di rivelazione parziale, come tessere isolate di un mosaico, che rimangono impigliate nella rete durante il processo di ricerca. E la ricerca è per definizione inesauribile: assomiglia all’inseguimento della linea dell’orizzonte, che si allontana man mano che ci avviciniamo. Il viaggio consente di acutizzare le energie, di metterle in fibrillazione. L’espansione metafisica, diciamo così, che predispone e accende lo sguardo poetico si traduce in “flusso acustimantico”, cioè in verità del senso che rivela e si rivela attraverso l’onda metro-ritmica del suono, composta anche per alchimia di incontri (e scontri) tra parole e singoli fonemi. È soprattutto il suono, in poesia, a creare il senso. E il senso che può scaturire per acustimantica è o il senso ordinario delle cose “altre” o, reciprocamente, il senso “altro” delle cose ordinarie.
BURLA
«Portate il mimo dell’invisibile, subito:
che bruci ad ogni tuffo del suo cuore».
(Sussurro dalla tenebra infinita)
«… Se il mondo è una pupilla pitturata
l’occhio che lo vede, mio signore
è un battere di ciglia, un colpo, un velo.
Un buco che sfavilla e poi si chiude
all’orizzonte:
nell’azzurro».
«Chi parla?»
(Scalpiccio di passi approssimati)
«Eccomi, padrone. Sono qua.
Burattino ironico e sublime.
Buffo. A disposizione».
«Apre dai due lati il mio portone».
(Fattosi scoperto alla visione)
«La lala, lallalla…»
«Tu. Che cosa ti sostiene?»
«Mi arrangio. I miei fili
si perdono nel cielo…»
«Forza, dunque, fammi divertire».
«Ma certo, Sire!»
(…)
«Ebbene?»
(toltasi la maschera:
mostrato finalmente il volto fero)
«Vieni che ti mangio in un boccone»…
*
E poi l’appuntamento mai fissato:
aspettare, aspettare invano
e stupirsi che non viene la persona
immaginaria che si attende, ma
un poco anche sperare di malgrado
che qualcuno ci venga a prendere
esca poi dal vuoto e si presenti.
Oppure ricordare, qualche appuntamento
vagamente, confusamente, però
dubitare, e aspettar lo stesso.
Quando il silenzio è il suono del vuoto
il vuoto è il colore del silenzio:
e affiora l’interno del mondo.
Allora mi sgancio dalle cose e…
vedo le Bianche Eminenze.
È per colpa loro, infine
che siamo in allarme costante.
Spiati, registrati, contemplati.
Ci vogliono così, i bei signori.
Incerte, opache ombre a non sapere,
a non dover capire.
Sbadigli, starnuti, sospiri
ansiti e lamenti,
rutti e ancora peti rimbombanti
dai vecchi dottorali consiglieri
di barba canuta fluente
nei corpi di mocciosi sbarazzini
nudi e appollaiati sui pitali.
Gli eterni replicanti, i commensali.
E noi che contempliamo l’abbuffata,
esclusi dal goderne la portata,
con l’acquolina in bocca e a pancia vuota,
confusiscrocchiazeppi a riminare,
desiderando: e a non voler osare…
(…)
“Armiamoci e partite”, prorompono improvvisi,
poi grasse le risate a crepapelle
e fiumi di buon vino a festeggiare.
Per altra via, piuttosto
bisognerebbe intripparli di cibo:
dal buco più nascosto e verecondo,
dal fondo dell’oscuro
per una digestione all’incontrario.
(…)
Ma sì, lo sanno che ho pensato,
ché nulla è a lor precluso e non gli arriva
e il mondo è solo un piccolo paese…
Io resto indubitabile e impunito:
mi mettono in consegna a far le spese.
Ah, le uniformi, le maschere infinite
che indossiamo!
Perché non ribellarsi, non possiamo?
ULTIMA DEA
Disanimata spoglia, questo siamo
del baco che divelse dal suo ghiomo
la crisalide, stupenda maiestà
e soffio smerigliato di cristallo
e palpito fuggente per gli spazi
verso i confini estremi
del suo cielo,
portando via con sé
felicità
che era verità
totalità
appartenenza muta
all’infinito essere del mondo:
lasciandoci quaggiù
tempo dolore bisogno
strazio e solitudine
la vita.
Ci resta la speranza
ultima dea.
OLTRE LA MACERIA
La vita, amici, è una cosa seria.
Per questo si ride
inevitabilmente
in fondo alla scintilla
di ogni lacrima.
E il sale amaro
acquista piano piano
una stanca malinconica
dolcezza.
La spilla che si appunta
al nostro cuore
a forza di portarla si fa carne:
non la sentiamo più.
Siamo nati per resistere
e scoprire, al colmo
della sofferenza,
il varco che traluce
dall’ingombro pieno
di frantumi.
Proprio quando la salvezza
sembra irraggiungibile
noi diventiamo grandi,
andiamo oltre la maceria.
OMBRE
È tutto illusorio,
tutto perdutamente vero
ciò che esiste.
Sul lento inesorabile sfinirsi
delle ore
cadono gli attimi dal cielo:
sono schianti,
accendono e rubano la vita,
e il mondo ne rintrona
e si consuma. Guarda!
Sotto la macina spietata
diventa polvere la luce,
calcinata cenere di schiuma.
Tutto si spegne in un lampo
di verità insensata.
Il vuoto ci passa attraverso
respira grazie a noi,
inconsapevoli sciamani.
Troppo tardi abitiamo l’anima…
oltre il muro ultimo del tempo
nel continente oscuro.
Solo le ombre splendono davvero.
ATTESE
Al sole, brucia il sale della terra
cristallizzato cielo
nel suono bianco-irene
della luce.
Formicolante trama di respiri
per le caverne d’aria
è la durezza liquida del bacio
che mi trattiene al mondo.
Il mare è una voragine splendente:
racchiude il buio orrore degli abissi
e il tempo pernicioso che corruga
la gigantesca crepa.
Ma guarda ora il vuoto che si apre!
Labirinto di anfratti sepolti,
sta per andare in scena
a conca di emiciclo
un bel tramonto-carne di macerie
dove s’inasta piano, affaticato
il dio turpiloquente della storia.
Le sue sono promesse da ubriaco,
bestemmie che accarezzano preghiere.
Delusi e disillusi come siamo
ci mancano richieste da inoltrare
ai giorni che tradiscono le attese.
Non resta che godersi queste sere.
BREVE STAGIONE
Arriva da un golfo lontano
sopra quella nuvola al tramonto
il suono intransitabile del tempo
dove cerco inutilmente
un varco per il regno della luce
che canta senza fine il suo poema
come il mare.
E viene, dolce, l’autunno dorato.
Lo riconosco dal transito
sempre più breve
delle impronte sulla sabbia,
dalla malinconia
che mi lavora dentro
ogni respiro,
e dalla fiamma che ravviva
nello sguardo
il tuo chiarore spento.
Ho bisogno di salvare il lampo
prima che si laceri
nel tuono.
Ecco, ti vedo fluire
nei ricordi antichi
scioglierti qui al centro
del silenzio.
Sei il sole che parla ai fiori
e il vuoto che conta ai morti.
Che porti ora dal tuo viaggio?
Che hai trovato lassù
nel ripostiglio intimo
del cielo? Sento l’utero caldo
e il ritmo che palpita sotto
la trama rugosa dei giorni
che racchiude i disegni segreti,
le forme del possibile
nei sogni.
Dono il mio pugno di polvere
alla terra. Sistemo le cose
attorno a questa volontà
ostinata, l’appello a vivere
la nostra breve stagione
di felicità.
Marco Onofrio è nato l’11 febbraio 1971 a Roma, dove vive e lavora Dopo la laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea, conseguita con lode all’università “La Sapienza” di Roma, si è dedicato al giornalismo e poi, integralmente, alle attività letterarie e culturali. Scrittore e critico letterario, ha pubblicato 37 libri per oltre 6000 pagine di opere (poesia, narrativa, saggistica, aforistica, teatro), nonché centinaia di articoli e recensioni. È caporedattore della rivista di studi romani “Lazio ieri e oggi”. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche e televisive di carattere culturale presso la RAI, emittenti private e web radio. Ha vinto numerosi premi letterari, tra cui il “Montale”, il “Carver”, il “Città di Torino”, il “Pannunzio”, il “Viareggio Carnevale”, il “Simpatia”. Svolge anche attività di editor e consulente in campo editoriale. Per la poesia ha pubblicato 14 raccolte tra cui, di recente, Le catene del sole, FusibiliaLibri (2019), Anatomia del vuoto, La Vita Felice (2019), Azzurro esiguo, Passigli (2021). Sue opere sono tradotte in rumeno (Suntem vii, Iaşi, 2018), spagnolo (Emporium. Poemilla de IndignaciònCivil, Malaga, 2019), e albanese (Zemra e kohës, Tirana, 2020). Sito internet: marconofrioscrittore.wordpress.com