Marco Onofrio| Inediti 2021

 

Naturalmente non lo so con esattezza assoluta, ma credo di poter dire che la mia poesia nasce da una pulsione fondamentale: la pro-vocazione dell’esistente mi spinge a non accontentarmi delle superfici, ma a cercare varchi – attraverso i tegumenti e gli apparati – verso l’oltre che le cose “normali” nascondono. Da questo oltre emergono, come tracce di un mondo perduto che bisogna percorrere a ritroso, gli echi confusi di una grande Essenza. Il compito della poesia è di imparare a convivere con le fratture innumerevoli della nostra vita per setacciare e raccogliere – in modo sempre più stringente e circostanziato – questi echi privi di memoria, anzi oltre la memoria. Direi perciò che la poesia è un “mandala” spirituale che permette di uscire dal fiume del tempo, anzi di entrarci così profondamente da riuscire a colloquiare con le energie profonde racchiuse dentro e intorno a noi. Il presupposto di questa operazione affonda le radici nell’Ascolto: senza ascolto non esiste la parola. È dall’ascolto e dal silenzio che si parte per divaricare i lembi del mistero. Ecco, questa mi pare una immagine efficace: il poeta tira i margini dell’aria e infila la testa nel “buco” per vedere che c’è dall’altra parte. Quali verità contengono le apparenze “reali”? La verità ultima è ovviamente inattingibile, fintanto che si è vivi; si possono episodicamente agguantare soltanto “verità relative” di rivelazione parziale, come tessere isolate di un mosaico, che rimangono impigliate nella rete durante il processo di ricerca. E la ricerca è per definizione inesauribile: assomiglia all’inseguimento della linea dell’orizzonte, che si allontana man mano che ci avviciniamo. Il viaggio consente di acutizzare le energie, di metterle in fibrillazione. L’espansione metafisica, diciamo così, che predispone e accende lo sguardo poetico si traduce in “flusso acustimantico”, cioè in verità del senso che rivela e si rivela attraverso l’onda metro-ritmica del suono, composta anche per alchimia di incontri (e scontri) tra parole e singoli fonemi. È soprattutto il suono, in poesia, a creare il senso. E il senso che può scaturire per acustimantica è o il senso ordinario delle cose “altre” o, reciprocamente, il senso “altro” delle cose ordinarie.

 

 

BURLA

 

«Portate il mimo dell’invisibile, subito:

che bruci ad ogni tuffo del suo cuore».

 

(Sussurro dalla tenebra infinita)

«… Se il mondo è una pupilla pitturata

l’occhio che lo vede, mio signore

è un battere di ciglia, un colpo, un velo.

Un buco che sfavilla e poi si chiude

all’orizzonte:

nell’azzurro».

 

«Chi parla?»

 

(Scalpiccio di passi approssimati)

«Eccomi, padrone. Sono qua.

Burattino ironico e sublime.

Buffo. A disposizione».

 

«Apre dai due lati il mio portone».

 

(Fattosi scoperto alla visione)

«La lala, lallalla…»

 

«Tu. Che cosa ti sostiene?»

 

«Mi arrangio. I miei fili

si perdono nel cielo…»

 

«Forza, dunque, fammi divertire».

 

«Ma certo, Sire!»

 

(…)

 

«Ebbene?»

 

(toltasi la maschera:

mostrato finalmente il volto fero)

«Vieni che ti mangio in un boccone»…

 

*

E poi l’appuntamento mai fissato:

aspettare, aspettare invano

e stupirsi che non viene la persona

immaginaria che si attende, ma

un poco anche sperare di malgrado

che qualcuno ci venga a prendere

esca poi dal vuoto e si presenti.

Oppure ricordare, qualche appuntamento

vagamente, confusamente, però

dubitare, e aspettar lo stesso.

Quando il silenzio è il suono del vuoto

il vuoto è il colore del silenzio:

e affiora l’interno del mondo.

Allora mi sgancio dalle cose e…

vedo le Bianche Eminenze.

 

È per colpa loro, infine

che siamo in allarme costante.

Spiati, registrati, contemplati.

Ci vogliono così, i bei signori.

Incerte, opache ombre a non sapere,

a non dover capire.

Sbadigli, starnuti, sospiri

ansiti e lamenti,

rutti e ancora peti rimbombanti

dai vecchi dottorali consiglieri

di barba canuta fluente

nei corpi di mocciosi sbarazzini

nudi e appollaiati sui pitali.

Gli eterni replicanti, i commensali.

E noi che contempliamo l’abbuffata,

esclusi dal goderne la portata,

con l’acquolina in bocca e a pancia vuota,

confusiscrocchiazeppi a riminare,

desiderando: e a non voler osare…

 

(…)

 

“Armiamoci e partite”, prorompono improvvisi,

poi grasse le risate a crepapelle

e fiumi di buon vino a festeggiare.

 

Per altra via, piuttosto

bisognerebbe intripparli di cibo:

dal buco più nascosto e verecondo,

dal fondo dell’oscuro

per una digestione all’incontrario.

 

(…)

 

Ma sì, lo sanno che ho pensato,

ché nulla è a lor precluso e non gli arriva

e il mondo è solo un piccolo paese…

Io resto indubitabile e impunito:

mi mettono in consegna a far le spese.

 

Ah, le uniformi, le maschere infinite

che indossiamo!

Perché non ribellarsi, non possiamo?

 

 

ULTIMA DEA

 

Disanimata spoglia, questo siamo

del baco che divelse dal suo ghiomo

la crisalide, stupenda maiestà

e soffio smerigliato di cristallo

e palpito fuggente per gli spazi

verso i confini estremi

del suo cielo,

portando via con sé

felicità

che era verità

totalità

appartenenza muta

all’infinito essere del mondo:

lasciandoci quaggiù

tempo dolore bisogno

strazio e solitudine

la vita.

 

Ci resta la speranza

ultima dea.

 

OLTRE LA MACERIA

 

La vita, amici, è una cosa seria.
Per questo si ride
inevitabilmente
in fondo alla scintilla
di ogni lacrima.
E il sale amaro
acquista piano piano
una stanca malinconica
dolcezza.

 

La spilla che si appunta
al nostro cuore
a forza di portarla si fa carne:
non la sentiamo più.

 

Siamo nati per resistere
e scoprire, al colmo
della sofferenza,
il varco che traluce
dall’ingombro pieno
di frantumi.

 

Proprio quando la salvezza
sembra irraggiungibile
noi diventiamo grandi,
andiamo oltre la maceria.

 

 

OMBRE

 

È tutto illusorio,

tutto perdutamente vero

ciò che esiste.

 

Sul lento inesorabile sfinirsi

delle ore

cadono gli attimi dal cielo:

sono schianti,

accendono e rubano la vita,

e il mondo ne rintrona

e si consuma. Guarda!

Sotto la macina spietata

diventa polvere la luce,

calcinata cenere di schiuma.

 

Tutto si spegne in un lampo

di verità insensata.

 

Il vuoto ci passa attraverso

respira grazie a noi,

inconsapevoli sciamani.

 

Troppo tardi abitiamo l’anima…

oltre il muro ultimo del tempo

nel continente oscuro.

 

Solo le ombre splendono davvero.

 

 

ATTESE

 

Al sole, brucia il sale della terra

cristallizzato cielo

nel suono bianco-irene

della luce.

 

Formicolante trama di respiri

per le caverne d’aria

è la durezza liquida del bacio

che mi trattiene al mondo.

 

Il mare è una voragine splendente:

racchiude il buio orrore degli abissi

e il tempo pernicioso che corruga

la gigantesca crepa.

 

Ma guarda ora il vuoto che si apre!

Labirinto di anfratti sepolti,

sta per andare in scena

a conca di emiciclo

un bel tramonto-carne di macerie

dove s’inasta piano, affaticato

il dio turpiloquente della storia.

Le sue sono promesse da ubriaco,

bestemmie che accarezzano preghiere.

 

Delusi e disillusi come siamo

ci mancano richieste da inoltrare

ai giorni che tradiscono le attese.

 

Non resta che godersi queste sere.

 

 

 

BREVE STAGIONE

 

Arriva da un golfo lontano

sopra quella nuvola al tramonto

il suono intransitabile del tempo

dove cerco inutilmente

un varco per il regno della luce

che canta senza fine il suo poema

come il mare.

 

E viene, dolce, l’autunno dorato.

Lo riconosco dal transito

sempre più breve

delle impronte sulla sabbia,

dalla malinconia

che mi lavora dentro

ogni respiro,

e dalla fiamma che ravviva

nello sguardo

il tuo chiarore spento.

 

Ho bisogno di salvare il lampo

prima che si laceri

nel tuono.

Ecco, ti vedo fluire

nei ricordi antichi

scioglierti qui al centro

del silenzio.

Sei il sole che parla ai fiori

e il vuoto che conta ai morti.

Che porti ora dal tuo viaggio?

Che hai trovato lassù

nel ripostiglio intimo

del cielo? Sento l’utero caldo

e il ritmo che palpita sotto

la trama rugosa dei giorni

che racchiude i disegni segreti,

le forme del possibile

nei sogni.

 

Dono il mio pugno di polvere

alla terra. Sistemo le cose

attorno a questa volontà

ostinata, l’appello a vivere

la nostra breve stagione

di felicità.

 

 

Marco Onofrio è nato l’11 febbraio 1971 a Roma, dove vive e lavora Dopo la laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea, conseguita con lode all’università “La Sapienza” di Roma, si è dedicato al giornalismo e poi, integralmente, alle attività letterarie e culturali. Scrittore e critico letterario, ha pubblicato 37 libri per oltre 6000 pagine di opere (poesia, narrativa, saggistica, aforistica, teatro), nonché centinaia di articoli e recensioni. È caporedattore della rivista di studi romani “Lazio ieri e oggi”. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche e televisive di carattere culturale presso la RAI, emittenti private e web radio. Ha vinto numerosi premi letterari, tra cui il “Montale”, il “Carver”, il “Città di Torino”, il “Pannunzio”, il “Viareggio Carnevale”, il “Simpatia”. Svolge anche attività di editor e consulente in campo editoriale. Per la poesia ha pubblicato 14 raccolte tra cui, di recente, Le catene del sole, FusibiliaLibri (2019), Anatomia del vuoto, La Vita Felice (2019), Azzurro esiguo, Passigli (2021). Sue opere sono tradotte in rumeno (Suntem vii, Iaşi, 2018), spagnolo (Emporium. Poemilla de IndignaciònCivil, Malaga, 2019), e albanese (Zemra e kohës, Tirana, 2020). Sito internet: marconofrioscrittore.wordpress.com

 

 

 

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