Maria Benedetta Cerro / Caffè letterario

Lucciole

Turba l’aria appena un’essenza odorosa
o la vita stupisce di certe insolite dolcezze
perché la notte è intenta a sospendere
nel buio piccole luci di passaggio
e tutta se ne allieta la via
in uno scialle avvolta di segreti.
Potesse così frivolo il pensiero
farsi d’un tratto. E invece m’impietra
a questo muro, mi fa sostanza inerte
esclusa dalla viva meraviglia.
Non se ne duole la parte di me
che la forza ha piegato alla rinuncia
non il pensiero assuefatto alla logica
umana di una fine. Quella lucciola
inquieta, non so come entrata nel fondo
da cui guardo la vita, stranamente
palpita e duole. Non vuole intendere
che non è spiacevole morire.
È come riposare da un gioco che stanca.

*

«Ora che torno…»

Ora che torno dentro un tempo antico
e dispongo dettagli di pensiero, con cura
te li porto, pendolare della memoria,
perché siano assillo e adempimento.

Molte vicende dovranno ancora
ardere la vita, per farla immacolata
nell’ora del turbine e del vero.
Non mi distrarre mai da questa pena

non sia mai guasto il tempo che la nutre
perché è profonda e pura e mi consola
il suo riferimento. Te la porto intatta,
mentre allarma il suo grido la cicala

e volontà la canicola inchioda.
Così solamente me ne privo. Consento
al furto, se può così presente
essere fuoco vivo e non bruciare.

*

Via La Cupa 46

Era in me la buia vita del sogno
la via deserta tagliata da un incubo
di vento. Vi andava piccina la mia ombra
in fuga dalla luce a piombo dei lampioni.
Dove fuggiva, verso quale sorte,
fra la ronda rara dei passanti
nel bavero alzato dei pastrani?
Precipitavano dure prospettive di muri
rotte da vicoli improvvisi
mentre avanti sempre nella notte
di vetro correva la vita, pari
all’attimo che non si guarda dietro.
E dove ora precipito e dirupo
senza soluzione di respiro?
Ancora senza pastrano, contro le lame
acute di dicembre, va solitaria un’ombra.
La pietà la ignora.
Non ama abbastanza il dolore
e non la punge più degli aghi del gelo
la sorte dell’altro che cade.

*

«Già senza mutamento…»

Già senza mutamento il cielo appare.
Smaglia dai campi l’indice perfetto
dell’intera altalena dei colori.
Stridono i rami: un’allegria li stanca,

plana intrepido un bimbo. Nulla manca
al felice consiglio dei clamori,
ma questa chiaritudine mi schianta.
Più decisa vi traspare la vita,

estranea tuttavia al morto incanto
ch’è in me l’andare torbido degli anni.
E mentre accade fuori dal pensiero

l’ordine inquieto che rinnova il mondo
l’anima annega smemoratamente
dentro un indugio sordo di parole.

*

Iperbole

Era la vita l’ideale riduttivo
della morte. Ogni giorno recava in grembo
alla sorte un non so che di cattivo.
Bastava un pensiero appena sghembo

che dalla retta fuggiva e il vero
senso era quella sola eccezione,
l’ellisse frequentata dal nero
male di una ribellione

che non sapeva d’essere perfetta
libertà. Ciascuno serenamente accudiva
malessere e lavoro. In fretta
sotto un cielo di piombo ammoniva

la prole: allo stesso tormento
la piegava. Ma sentivo mia la scelta
e l’errore il mio comandamento.
Mia la vita dal mondo divelta.

*

Idillio

La città convessa dentro la sfera
vuota del cielo pare un sogno immobile
per sempre sotto una campana di vetro.
Non è così fermo l’amore
nella sua altalena d’incendio e di gelo.
La via che dilegua fra le case
porta all’incubo eterno del ricordo.
Ora è fermo in bilico al silenzio
l’animo addolcito dalla morte.
Fine dell’assedio al pensiero disfatto
dall’amore, fine del rancore.
Dura una calma come di perdono
un dolore fatto lontananza.
Nel lastrico ghiaccio un riposo
composto detta l’assenso bianco della luna.

*

Rituale

È l’ora in cui sciamano per via
aspre fanciulle dalle gonne a invito.
Le stringe di fuoco una cintura
per il rito d’amore che ripete
un dispetto d’abbracci e le incorona.
Nel compararmi ad esse mi divora
una svelata pena. È tardi.
Partiti per bianche assiderate vie
eravamo in un canto intatte rose.
E s’avvera il sogno di un’alba
già notturna in poca sera.
Tutti li perdo, stretti al mio fianco,
i compagni scagliati in altre vite.
Così mi strugge ogni ragazza al vento
e non i freschi pensieri, né i begli occhi
mi farebbero ladra, ma essere vorrei
quella che ignora l’assenza d’altre
primavere né sa gli inganni
rimasti senza segno e senza nome
nudi dentro un limbo di parole.

(da Lettera a una pietra, Edizioni Confronto Fondi, 1992)

Maria Benedetta Cerro nasce a Pontecorvo nel 1951. Oltre a Lettera a una pietra (1992), tra le sue raccolte di poesie si segnalano Licenza di viaggio (1984), Ipotesi di vita (1987), Nel sigillo della parola (1991), Allegorie d’inverno (2003), La soglia e l’incontro (2018), Prove per atto unico (2023). Ha al suo attivo collaborazioni con riviste e siti di poesia, ed è presente in diverse antologie di poeti italiani e stranieri.

La poesia, per la Cerro, è strumento di conoscenza e svelamento, in quanto via di accesso alle più intime profondità del reale e del cuore umano. Siamo all’interno di un verso esistenziale, sussurrato, che si muove nel silenzio delle cose non per sfuggire, negare o ribellarsi, ma per sperimentare, tutto intero, il sentimento della vita e della morte. Antidoto alla solitudine interiore diventa allora lo stupore di fronte alla bellezza, quell’inabissarsi nella vita palpitante degli oggetti che esistono e resistono nonostante tutto. Consapevole di appartenere a questo universo, l’anima può ritrovarsi e ritrovare un senso.

In tale contesto, il lavoro sulla parola rappresenta il nodo centrale della comunicazione poetica: alla “lingua giusta” è demandata l’unicità dello stile, il mezzo espressivo irripetibile per dare al concetto una forma visibile e pienamente fedele. La parola poetica, nettamente differente dalla lingua parlata, è tuttavia lontana dall’artificio retorico: essa è infatti spontaneità, essenzialità, e in quanto appartenente ad un “oltre” di verità e purezza, anche “concidentia oppositorum” di oscurità e luce, lama a doppio taglio che può ferire o guarire.

Donatella Pezzino

Immagine: Antonietta Raphael, Autoritratto scrivendo una lettera a Mario, 1942

 

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