Nota di lettura di Alba Gnazi a “e mi domando la specie dei sogni” (Terra d’ulivi edizioni, marzo 2017) di Giovanni Perri

Ho avuto bisogno di un giorno di vento, del silenzio magmatico delle cose dentro, per immergermi nelle tue parole – ti parlo come fossi qui, Giovanni: una conversazione a tu per tu dal tuo libro a ogni mia impressione di lettura.

Ogni testo richiede propensioni interiori d’ascolto, ogni testo compone un organigramma di pensiero che prende avvio dalla ricerca – mai scontata, e nella tua poesia sempre presente – di ambiti sonori e linguistici, significati paralleli all’apparenza insondabili, movimenti percettibili con un angolo d’occhi, geometrie non ancora stabilite, grammatiche (e qui ci torno entro breve) veicolanti alfabeti inediti.

Grammatica: uno dei termini che compongono questo cifrario, una bussola indicante la tua personalissima, chiarissima stella polare. La Grammatica, che lungi dall’essere un mero sistema di regole e concatenazioni apre la via – e chi è più accorto lo sa – a ignoti e sorprendenti atti di costruzione che scindono Verbo e Pensiero da ogni architettura precostituita: proprio muovendosi all’interno di quei labirinti meravigliosi e imperfetti che la distinguono, imperfetti perché mai spiegabili fino in fondo, perché Grammatica è etimo e radice, è cultura e volo, nutrimento, intrico d’arterie sillabiche, foresta di significanti e loro intercalari, disgiunti e uniti ai tessuti che il tempo dispone. Mi spingo oltre, arrivo a dire: universale, postulabile per innatismo, per appartenenza di specie (Chomsky ci scuserà per l’azzardo), Poesia primeva che allatta e accoglie: più volte scandisci il quadrisillabo, più volte te ne fai custode, messaggero, financo supplice: la Ricerca, per l’appunto, che serpeggia di verso in testo, della Ragione Fondante, o per lo meno di una sua credibile controparte. Con la Poesia affronti l’alea a viso scoperto, portando con te il tuo bagaglio poetico culturale ed esistenziale, attraverso il sapiente e personalissimo uso degli strumenti retorici e stilistici noti – l’accumulo, che evidenzia la tensione interiore, quel tentativo di indicare il centro esatto, il fulcro epistemico; la sinestesia: sovrapporre i sensi per allargare i confini, per dire che non solo lì bisogna fermarsi, che non bisogna e non si deve proprio fermarsi al primo significato conosciuto; il chiasmo, che richiama a torsioni e inversioni di pensiero, che allontana da ogni punto di partenza dato per certo, e via discorrendo -.

Nell’indagine condotta all’interno del senso del tempo e dello scorrimento (‘’Tutto evapora/tutto diviene’’, Segnali di fumo: quasi un suggello eracliteo) che viene mantenuto costante in tutto il libro, dell’accidentalità del vivere cui corrisponde, a specchio (altro lemma frequente), quella del morire, nonché dei significati che suffragano una spiegazione plausibile al quotidiano star-si, al dialogo ininterrotto con le cose-in-sé e le cose-fuori-da-sé, fosse anche la propria immagine riflessa, ho avvertito una sorta di climax in Finitudine, quasi un voler tirare le somme di un discorso condotto fino ad allora, una sorta di rassegnazione da cui ti riscatti, nei testi successivi, assumendo spesso la posizione di chi osserva partecipando: spettatore, sì: anche di te stesso.

Il corpo della poesia viene dissezionato, lacerato, celebrato, tra-dotto (emblematica, per l’appunto, ‘’Traduzioni’’) ; continuativi e percussivi i ritmi delle (variatissime e semoventi per ambiti e scenari) combinazioni descrittive, degli occhi che saettano in dentro in fuori, da un lato all’altro, per non perdere di vista alcunché: che sia un Clochard – forse alter ego di un qualche sé che risolve la Ricerca cui prima si accennava accettando di essere spazio senza confini (‘’lo sentono tutti/che non ho porta’’, Clochards) –, o un generico Tu cui si affida la prosecuzione della Ricerca quando i propri strumenti, il proprio tempo non bastano, purché condotta partendo da determinate basi: ‘’continuami tu/ dammi un’origine/ che stia sulla parola’’ (Oltre).

È un andare che si fa spasimo nei processi di una scrittura asciutta e calibrata nello stile, cui concedi libertà di versificazione, poiché scandita da una musicalità interna che dà voce titolo e ruolo a ogni composizione, contrassegnata da una scarsissima punteggiatura (lezione sanguinetiana appresa e tramandata) e da veloci cambi espressivi, mantenendo il lettore su un filo di tensione che trasforma la lettura in un percorso di fascinazione e disvelamento, e che prosegue i propri sentieri sulle rotte di un dichiarato, potentissimo amore per Poesia (invocata in chiusura con Poesia che mi guardi, titolo – non a caso, per dedizione vocazione e richiami – preso in prestito dalla Pozzi: Poesia che si fa corpo, tirata dagli occhi) che trova un felicissimo approdo in questa prima raccolta: prima di altre e future, felicissime soluzioni poetiche al cui richiamo non mancherai certo di rispondere.

 

Loading

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.