Odio strofinare la quiete di quest’ora impervia a febbraio.

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Le sei, riflesse nel cielo plumbeo
grigio quanto le mie mani, promettono
stenti delle strade e nelle piazze,
il coro sommesso vi fa capolino.

Occhi s’aggregano,
multicolori d’iridi stanche
alla fermata del bus
sciamano, ronzano in flussi
d’incubi dal sottosuolo.

Come calici vuoti sopra altari smussi
Fantasie d’ombre spezzate
in giostre d’orror rinascimentale inquieto

E poi lo splendore astruso, decadenza
poligama, Divina bellezza sugli orli barocchi
delle mie chiese

Non aspetterò il fare dozzinale
delle cere sciolte, lo struggimento
commerciale d’ incenso sanguigno e polito
o l’ora della sciagura sui fregi antichi

Non m’attarderò troppo su queste nenie
E sui baveri bianchi sarò sbaffo di vino
accigliato quasi incredulo
superstite alcolico
d’ognuno di noi

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