OMBRELLO ROSSO

 

I

La parola prima di tutto,

l’ostacolo primitivo va interrotto a buon fine,

io intanto sfoglio un libro di Julio Cortazar.

La copertina dice ‘Racconti’,

nella sterilità di domande psicologiche

affondo la mano sinistra dentro al tomo:

racconto numero X:

modi per essere catturati.

II

A San Lorenzo ho il viso rosso

e litigo con un pakistano per sette fotocopie,

io parlo di civiltà, lui dice di essere nato nel settantadue,

ti penso, mentre in giacca e cravatta non vuoi impiccarti

e ti voglio molto vivo per raggiungere un cancello divino

e un pantagruelico amore di fiori sbocciati e città dalle gambe affusolate.

III

Metto un piede dopo l’altro,

(come ad avere enormi scarpe lucide e marroni, ma non sono un uomo,

né tanto meno un uomo distinto, e neppure l’uomo con parrucca riccia

che fuma una sigaretta spenta atteggiandosi ad Edith Piaf, ma oh, molto

più bella)

Mi rendo conto della mia smisurata allucinazione,

così ti apro: nella vasta penombra romana delle diciotto e diciannove

spalanchi i tuoi artigli, ombrello rosso, ricordandomi che ho scordato le cuffie,

togliendo spazio ad ogni non-pensiero

IV

Dalla baraonda babelica della mia testa marcia e giovane

si affacciano due fanali spogliati di ogni cosa

e riesco a vedere bene un uomo dall’aria umana (e poco utopica)

pulire con un fazzoletto il suo ciclomotore violanero.

In tutto questo piove un po’ più forte

ed io penso che sia un’ampia metafora:

sta tutto nel pulire la pioggia mentre lei continua a scendere,

idiozia.

V

Quasi a Termini c’è un barbone

col muso all’infuori e una sigaretta tra le dita secche,

pensa a qualcosa che riesco a sfiorare con la punta delle orecchie.

Lo rivedo più avanti, adesso indossa un colbacco

e mi rendo conto di avere un’altra allucinazione.

Voilà monsieur.

VI

I suoi passi sono piccoli come singhiozzi

appena nati, un elefante alato accanto a lui,

il nano vaga nell’oscurità ma non ha niente di inquietante,

io lo fisso a lungo sbattendo l’ombrello contro teste pelate e giacche di forfora,

rendendomi titanica e bianca come una balena arenata in una pozzanghera di

cetrioli e oro nero.

Ma adesso devo pisciare così tanto che fermo una ragazza,

ha un giubbotto grigio e accento del nord

io ho un accento strano e un parapioggia rosso che continua a dirmi

di pisciarmi nei pantaloni.

Così decido e lascio colare già l’urina per davvero,

la ragazza tenta di baciarmi e mentre le chiedo di dirmi a che ora arriverà Mastroianni

(fedelmente accompagnato da Ishtar e Tammuz), me ne rendo conto,

sì, me ne rendo conto,

madamoiselle.

(terza allucinazione)

VII

All’inizio del mio primo e fin’ora ultimo romanzo parlavo di una gastrite profetica

che è profetica perché ho mal di stomaco mentre mi accorgo

che il nano è una minuscola donna dagli orecchini di perle.

Lei mi guarda preoccupata, l’elefante vola via,

intanto io e te soffriamo di un gran mal di schiena letterario

che non ci permette di affaticarci per le prostrazioni dello stipendio a fine mese

ma che ci fa alzare con quattro chiodi posizionati sulle sopracciglia,

da loro scende giù un cartello,

Poesia, dice

(a me interessa poco la pubblicità, che parli di forchette resistenti o di vecchi con indosso

maschere da maiale, poesia, poesia).

VIII

Il mio viaggio al termine del tram 8 direzione Casaletto

ha ancora qualcosa da buttarmi in faccia

mentre rido da sola con un ghigno di caramelle e atrocità

e penso al fatto che sia tuo padre che ti somigli (non tu a lui)

per l’affaticamento che gli hai posato sulla testa,

(corone di alloro, spine di Gesù Cristo e uno scrittore

con la frusta di Dostoevskij in mano)

IX

Stormi di uccelli a cui vorrei attaccarmi,

l’ombrello chiuso con le punte verso la mia mano calda,

ingoio centinaia di lacrime quando vedo una macchina nera

pensando alla semplicità mai ottusa di mio padre,

ma devo farlo, così mi rimbocco la pelle

e sputo via un organo piccolo e bruno

che abbiamo creato con un laccio di scarpa beige

e grandi poesie verdi,

lui palpita tra le mie dita,

me lo metto in tasca,

sperando che dal cunicolo talpatico

del mio povero giubbotto sovietico

arrivi dritto nel tuo taschino

a far sparire la morte che ci lasci dentro.

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