Ponte Poesia | Gino Panariello / Inediti

Questa rubrica nasce con l’intento di provare a essere un trattino d’unione tra i poeti contemporanei e chi la Poesia l’ha sempre guardata da lontano o frequentata solo sui libri di scuola. Senza la pretesa di fare critica letteraria andremo insieme a incontrare chi con i versi scava nel sentire di questo tempo complicato. Uno spazio per i “non addetti ai lavori”, per i curiosi, per i viaggiatori, dove scoprire quali creature bizzarre, sono i poeti. 

In “Quel che resta da fare ai poeti” saggio inviato alla rivista “La voce” nel 1911, che peraltro lo respinse, Umberto Saba esordisce con una frase che trovo si applichi alla perfezione all’opera di Gino Panariello, sia nella produzione poetica sia nei racconti in prosa: ” Ai poeti resta da fare la poesia onesta” .

Onesta è la poesia dell’autore che andiamo a conoscere oggi, di cui vi offrirò una selezione più ampia del solito. Gino Panariello non ha mai pubblicato e non nego sia uno degli scrittori “sotterranei” che aspetto con ansia di vedere su carta, per poter leggere e attraversare per intero il suo personale universo, scandagliato dalla parola che si muove tra gli eventi che lo hanno visto protagonista e le sue lacerazioni emotive, parola che non fa sconti, incisiva e insistente “nel sollievo dell’unghia che stacca la crosta dal taglio“, come sottolinea il poeta.  Niente a mio avviso ha più potenza espressiva del vero e in questi testi di verità ne troviamo a fiumi, una verità spesso scomoda e terribile, che ci accompagna nelle periferie dimenticate, in compagnia degli ultimi, dei sofferenti, di una gioventù vissuta sull’orlo di un precipizio.

Non si assolve e non si condanna il poeta, a volte si schiaffeggia, mentre semplicemente si racconta, narrandoci una realtà volutamente ignorata, semi-sconosciuta ai più, facile preda di giudizi e pregiudizi, svelando particolari che scandalizzano i bigotti e i benpensanti e fanno venir voglia ad altri di abbracciare chi li descrive, o perché toccati nel profondo e nel personale, o come portatori sani di umanità. Dove Gino ci fa entrare è il suo passato, tra ricordi talmente nitidi da sanguinare ancora, cicatrici aperte e volutamente esposte, per non dimenticare, per non ricadere in un incubo da cui non si guarisce mai del tutto, lo sa bene il poeta, lo sa bene chiunque abbia attraversato quella strada, che sempre si cammina a piedi scalzi.

Trovo questa poesia di un’attualità feroce, pregna di una consapevole ricerca interna ed esterna che nulla esagera e nulla tralascia, nemmeno per ricercare il verso più armonico e più bello, come troppo spesso a mio avviso accade, nulla è concesso al sentimentalismo zuccheroso o al sogno, tutto è duro, scorticato, prepotentemente vissuto in prima persona.  Credo che la fedeltà che dimostra a se stesso scrivendo sia una delle doti più grandi di Gino Panariello e uno dei doni più importanti che fa al suo lettore.

Attenzione, da qui si va “nella città dolente”, una città che è anche la nostra, come nostri sono i ragazzi, i sentimenti, le oscurità che abitano i muri scartavetrati a nudo della poesia di Gino Panariello. Buon viaggio.

 

E COMUNQUE IO ME LO RICORDO

E comunque io me lo ricordo
il disprezzo malcelato
E avere 15 anni e la strada già indicata
Le ricordo quelle facce, tutte le belle persone e le figlie principesse
che aspettavano conferme ai pronostici da saggi
Ma io sono ancora vivo
e ho accelerato il passo
sorvolato recinzioni e le grate alle finestre
corridoi al cloroformio e dottori a fil di voce, la dolcezza preventiva
di barelle coi legacci
Sono stato un dito in culo alle vostre conclusioni
e ai vostri necrologi detti prima che accadesse

 

M D M A (Nichelino Nord)

Ingoiai saliva e diventai un gigante
mentre camminavo,
il suolo divenne gommapiuma sotto le mie scarpe.
Poi
vomitai viola
guardando i miei succhi biliari
ribollire
nell’acqua del cesso.
Mi chiesi ridendo
se fosse vera gloria
annegare
dentro a un lavandino sciacquandomi la faccia,
in un autogrill
di Nichelino Nord.

 

EROICO RIMEDIO

La puzza di piscio nei cortili è il distintivo
dei posti dove ti puoi perdere
I muri a San Donato sono grigi
i parchi hanno fili d’erba che nessuno guarda
e Piazzale Corvetto è un urlo di giorno e un ringhio costante
la notte
uguale
a Porta Palazzo
i suoi mille sventoli
di teli e bancarelle
e ascessi sulle braccia
La strada
di Castel Volturno è una maligna lingua nera
lucida di sudore ed acqua distillata e succo di limone
e cento ” man” pronti a sorridere rigurgitando sfere
I palazzi di Secondigliano
sono scale disarmoniche
e file ordinate di pellegrini in processione
a ossequiare giacche in pelle nera e capelli unti
con i fischi a far da sottofondo
o corse improvvise
a infrangere brame di sollievo

 

IL SANGUE DI E.

E poi ancora
sperare che basti il fondotinta
dopo i vortici e i lampi
fermati dal suolo.
Se il freddo
del pavimento almeno aiutasse
a coagulare il filo
che scende sul labbro superiore.
E poi
ancora
gli occhiali da sole a coprire
i grumi sottopelle
in contrasto alle pupille.
E uscire
uscire e camminare
sorridendo
mentre
la tachicardia spinge
lo stomaco a toccare lo sterno.

 

TETANO

Non ce l’ho, la schiena dritta
non ostento orgoglio inappropriato
spacciando per meriti i dati di fatto
non mischio carte false
in mazzi già truccati.
E non cammino a testa alta
perché
quando rimango solo
la memoria diventa
un chiodo arrugginito tra costola e polmone
incespico
con le spalle ricurve.
E non pronuncio arringhe
a sostegno di orrore
travestito
da male necessario.
Balbetto
soccombo al tetano
della coscienza sporca
che fa battere i denti.

 

INVISIBILE

Io non ci credo ai necrologi,
a mani pulite e reticenti.
Credo nel sollievo dell’unghia che stacca la crosta dal taglio.
Non credo al paradiso,
credo all’ineluttabile,
al suolo e  a chi  ne ha fatto casa.
E credo alla carne,
credo al sangue
e al muco,
al vento freddo che lo secca di notte
sui baffi.
E credo alle porte chiuse in faccia
alla nebbia
che  diventa brina sulle sopracciglia,  la notte di Natale,
guardando le luci nelle case degli altri.

 

REQUIEM

Forse oggi
abbiamo guardato entrambi
verso Sud
sperando sia vero
che l’inferno
svanisca in  un lampo
un attimo prima che tutto si spenga
e un sorriso
faccia calar la tenda.
Su brande e coperte
sul suolo urbano
o sbarre alle finestre.

 

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